28 Marzo, 2024
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Manovra: tutti dicono sì al patto, nessuno ammaina la bandierina

Su tasse e rottamazione cartelle ogni partito ha la sua soluzione. La sintesi è ardua

 

Fino a quando c’è da dire sì all’intenzione, insomma al metodo, il patto proposto da Enrico Letta per blindare la legge di bilancio trova d’accordo tutti. Dice sì Matteo Salvini e anche Silvio Berlusconi è favorevole all’idea di sedersi intorno a un tavolo, insieme a Mario Draghi, per collaborare ed evitare di trasformare il passaggio parlamentare della manovra in una rissa. D’altronde nessuno può rischiare di diventare il guastafeste di un provvedimento che si appresta a dare trenta miliardi al Paese. Fosse stata una Finanziaria tradizionale, il tiro alla fune sarebbe stato messo in conto, ma ora che la pandemia è tornata a generare preoccupazione, il contraccolpo del pensare più a rubare il tesoretto all’altro che agli aiuti economici e alla terza dose può farsi pesante. La volontà di provare a rinunciare alle bandierine c’è, ma quanto questa predisposizione sia fragile lo dicono gli emendamenti che i partiti stanno preparando. Sono autoreferenziali, non guardano alla mediazione e quindi al compromesso.

Se il segretario del Pd è arrivato al punto di invocare “un’assunzione di responsabilità” da parte di tutti i leader della maggioranza è perché la manovra ha dato dimensione a un certo sfilacciamento. Le discussioni sulle pensioni e sul reddito di cittadinanza, che hanno accompagnato la prima fase della gestazione, hanno dato già prova di quanto sia difficile e sconveniente far prevalere l’interesse del Paese sulla ricerca del consenso. Lo sanno bene i leghisti e i grillini, che hanno dovuto digerire lo stop a quota 100 e una normalizzazione del sussidio. Il cerchio si è chiuso, anche perché il premier ha saputo trovare una mediazione capace di accontentare tutti, ma non del tutto.

La decisione di palazzo Chigi di affidare al Parlamento la scelta sulla destinazione degli otto miliardi per il taglio delle tasse sarà il primo banco di prova per la maggioranza. Da martedì, quando la manovra inizierà il suo percorso parlamentare in Senato, si capirà se i partiti di maggioranza avranno voglia e capacità di sostanziare la tregua. Un precedente c’è ed è il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sul fisco delle commissioni Finanze di Camera e Senato. È stato la base per la delega fiscale approvata dal Governo, ma quell’accordo va ricostituito. Nel frattempo, infatti, si sono riproposte le divisioni. E così mentre il Pd guarda alle buste paga dei lavoratori e in secondo ordine alle piccole imprese, i 5 stelle pensano di destinare gli otto miliardi agli autonomi e a un taglio del cuneo che dia un beneficio anche alle imprese e non solo ai lavoratori. La Lega propone l’estensione della flat tax al 15% per le partite Iva (da 65mila a 100mila euro), ma anche un taglio importante all’Irap. L’elenco continua con le preferenze degli altri partiti e mette in evidenza una grande confusione.

C’è poi il tesoretto di circa 500 milioni. Sono soldi che il Governo di fatto mette a disposizione dei partiti per aggiustare la manovra. Sono pochi e il rischio è quello che finiscano a finanziare sagre o castelli, come avviene ogni anno. Questa volta il rischio è potenzialmente minore perché il budget è esiguo e i tempi sono molto ridotti, ma soprattutto questi soldi potrebbero servire, in parte o tutti, per misure più importanti, che altrimenti resterebbero sguarnite di una copertura. Anche qui si misurerà l’unità di intenti che oggi tutti si dicono pronti a sposare. Certo l’estensione della flat tax, secondo i calcoli fatti dalla Lega, costerebbe 110 milioni il prossimo anno (1,1 miliardi nel 2023 e 860 milioni l’anno dopo) e quindi si potrebbe fare attingendo al tesoretto o riducendo le spese di altre voci, ma così si torna al punto di partenza e cioè di rimettere in mezzo le bandierine.

Come si esce da questo cortocircuito? Il “risultato condiviso da tutti” che cita Letta è difficile da raggiungere, a meno che i partiti decidano di giocare al ribasso. Al netto della scelta sugli otto miliardi per le tasse, già complessa di per sé, tutto il resto verrebbe tenuto fuori dalla discussione. Con il paradosso dei partiti che lamentano l’arrivo tardivo della manovra alle Camere e che però rinunciano alla centralità del Parlamento per non farsi male reciprocamente. Il confine tra il buon senso e la rassegnazione è labile.

Tra un paio di settimane, quando dovrebbero scadere i termini per la presentazione degli emendamenti in commissione Bilancio, i giochi saranno fatti. La strada è lunga. Basta guardare a un altro tema che divide: la rottamazione delle cartelle fiscali. La Lega spinge per una rottamazione quater, una nuova edizione per tirare dentro le cartelle del 2018 e del 2019. La proposta è in via di definizione e, secondo quanto apprende Huffpost da fonti di partito qualificate, contempla al momento tre ipotesi: la prima è un rottamazione quater secca, che avrebbe il vantaggio di costare poco, mentre la seconda, oltre alla rottamazione prevede una riapertura dei termini per chi non ha aderito alle rottamazioni precedenti e ora intende farlo. La terza ipotesi aggiunge alla rottamazione delle cartelle del 2018 e del 2019 anche la riammissione nei termini dei contribuenti che hanno aderito alle edizioni precedenti, ma che non sono riusciti a pagare, soprattutto a causa del Covid: non si apre a chi ha scelto di non aderire, ma a chi è decaduto dalle rottamazioni precedenti, allargando i termini e le modalità delle misure previste dal decreto fiscale. I 5 stelle presenteranno un emendamento per chiedere anche loro una rottamazione quater, sempre per il 2018 e il 2019. Il Pd, invece, frena e pensa solo a un aggiustamento delle scadenze per le cartelle notificate tra settembre e dicembre.

Ancora più lontani dall’ipotesi di una rottamazione quater sono i renziani. Dice Luigi Marattin: “Italia Viva vuole la riforma complessiva della riscossione, come evidenziato nella risoluzione che le commissioni Finanze di Camera e Senato hanno approvato un paio di mesi fa, e che idealmente costituiscono il completamento del documento del 30 giugno. Lì non rincorre sempre l’ultima proroga, ma si costruisce una riforma complessiva che va dal magazzino all’inesigibilità, agli interessi passivi alla razionalizzazione delle rateizzazioni. Servono riforme strutturali, non riforme spot”. E anche LeU è contraria: “Quelle individuate con il decreto fiscale – dice il sottosegretario Cecilia Guerra – sono misure sufficienti e equilibrate. Siamo contro i condoni: se dobbiamo spendere milioni o miliardi preferiamo destinarli agli aiuti per i lavoratori e le imprese che hanno riscontrato difficoltà a causa del Covid”. La strada verso il Patto è più che contorta.

(Huffpost)

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