28 Marzo, 2024
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Tsai Ing-wen e la resistenza di Taiwan, “la nazione che non c’è”

Con le sue dichiarazioni indipendentiste, la presidente ribelle è la principale spina nel fianco della Cina

 

Niente Partito comunista con i suoi boiardi imbalsamati, nella storia di Taiwan. Niente Guardie rosse o falci e martelli. Tutto il contrario piuttosto. Una voglia di indipendenza sentita, in particolare, da quelle nuove generazioni che hanno studiato in America, parlano inglese meglio del mandarino e sono impegnate a inseguire la ricchezza in un’isola industriale lunga 350 chilometri, popolata da più di 20 milioni di persone che, secondo i più recenti sondaggi, solo per meno del 10 per cento è favorevole alla riunificazione con la “madrepatria” e dove soltanto un trascurabile 2,7% identifica la propria identità nazionale come “cinese”.

Per la Cina, quest’isola a un’ora d’aereo da Hong Kong, dove i McDonald’s sono centinaia, ma poche le case da tè, resta ancora oggi “la provincia ribelle” per antonomasia. Un’isola dove metropoli cresciute in fretta e inquinate coesistono con una natura in buona parte incontaminata, dando vita alle molte contraddizioni di Taiwan, l’antica isola di Formosa (Hermosa, bella, in spagnolo) come la chiamarono i conquistadores spagnoli, dove ormai la maggioranza dei taiwanesi – dopo aver visto quello che Pechino ha fatto ad Hong Kong – vorrebbero vedere finalmente riconosciuta anche dalla comunità internazionale la piena indipendenza. Un desiderio più che mai inviso alla Cina comunista, che dopo Hong Kong e Macao vorrebbe invece riprendersi a ogni costo anche quest’ultima “provincia rinnegata”, creata ormai più di 70 anni fa anni fa dal nazionalista Chiang-Kai-shek.

Un Paese che in realtà continua ad assomigliare, almeno dal punto di vista del diritto internazionale, a una “nazione che non c’è”, grazie al feroce ostracismo di Pechino che ha praticamente imposto con ogni mezzo ai governi del Pianeta di non riconoscerla ufficialmente, se si eccettuano poco più di una quindicina di Paesi, per lo più staterelli dei Caraibi e africani. Anche il Vaticano, che da sempre mantiene salde relazioni diplomatiche con Taipei e non con Pechino, ormai stregato anch’esso dal fascino ammaliante della nuova superpotenza globale, pare si appresti a cambiare “versante” della contesa: si dice che anche questo sia contenuto nelle trattative – segretissime – in corso da tempo tra Pechino e la Santa Sede.

E che Taiwan, come nazione, non esista e non debba né possa esistere, lo ha ripetuto, per l’ennesima volta, nei giorni scorsi, il potente presidente della Cina – quella comunista – Xi Jinping, nella Grande sala del popolo, pronunciando un solenne discorso per celebrare le vittime della rivolta di Wuchang, la scintilla che scatenò la rivoluzione che portò alla fine della dinastia Qing e alla fondazione della Repubblica di Cina. Proprio quella “Repubblica di Cina” che oggi è il nome ufficiale di Taiwan, la cui separazione dalla “madrepatria”, a detta di Xi, fu la conseguenza del caos e dell’incertezza storica dell’epoca, un caos e un’incertezza che oggi ormai – questo è il teorema di Xi – hanno ceduto il posto alla forza e all’ordine. Grazie al suo governo- e a quello del Partito Comunista – ovviamente.

Ma da Taipei gli ha risposto – anche lei per l’ennesima volta – una donna, Tsai Ing-wen, piccola e minuta, ma determinata e – soprattutto – “resistente”. È la presidente della Repubblica di Taiwan, la “Republic of China” (ROC, in sigla) appunto, come si auto denominò ai tempi della fuga del “generalissimo” Chang Chai Shek di fronte alle truppe comuniste di Mao Zedong, in contrapposizione all’allora nascente (e vittoriosa) “People Republic of China” (PRC) che prendeva vita a Pechino. Oggi Tsai, con le sue dichiarazioni fieramente indipendentiste, rappresenta senz’altro la principale spina nel fianco per il regime cinese.

La novità nell’ultimo discorso di Xi Jinping su Taiwan, però, è che – per la prima volta da molto tempo a questa parte e dopo mesi di dichiarazioni bellicose – il presidente cinese non ha pronunciato la solita formula “senza escludere l’utilizzo della forza”. Soltanto qualche mese fa, nel luglio scorso, Xi aveva promesso di “distruggere” qualsiasi tentativo di indipendenza da parte dell’”isola ribelle”, mentre nel suo discorso del 2 gennaio 2019 fece riferimento in modo esplicito all’uso della forza per completare la riunificazione. Il risultato che Xi ottenne in quell’occasione, però – agevolato dall’effetto delle proteste e della successiva repressione cinese su Hong Kong – fu di segno totalmente opposto, spianando la strada alla conferma della piccola e combattiva Tsai Ing-wen alle elezioni presidenziali di Taipei del 2020.

Così questa volta i toni del discorso di Xi sono stati decisamente meno aggressivi, forse influenzati anche dalla ripresa del dialogo diplomatico con gli Usa, dopo l’incontro tra Jake Sullivan e Yang Jiechi, in attesa di quello virtuale con Joe Biden: “La riunificazione con mezzi pacifici serve al meglio gli interessi della nazione cinese nel suo insieme, compresi i connazionali di Taiwan”, ha detto Xi, facendo esplicito riferimento alla ferma volontà di aderire al principio di “una sola Cina” e al cosiddetto “consenso del 1992” quando, In uno storico incontro tenutosi a Hong Kong in quell’anno, Taipei e Pechino concordarono sull’esistenza appunto di “un’unica Cina” che comprende sia quella continentale sia quella insulare. Ma la presidente di Taiwan ha sempre disconosciuto con decisione l’accordo del 1992.

Tsai ha scommesso su una situazione economica nel complesso positiva e in crescita, attribuendosene il merito. Gli investimenti esteri a Taiwan sono in forte aumento: i dati forniti dal ministero per gli Affari economici parlano di un bel +20 per cento su base annua nel periodo gennaio-novembre. Il programma di incentivi per il rientro in patria di aziende che avevano delocalizzato in Cina, viene presentato dalla piccola e agguerrita Tsai come un successo personale: oltre 150 aziende hanno aderito, contribuendo così alla creazione di molti nuovi posti di lavoro. A livello politico, nonostante la perdita di ulteriori alleati diplomatici passati dalla parte della Cina, Taiwan ha visto rafforzato il sostegno degli Usa a livello politico e militare.

Nei rapporti tra i due lati dello Stretto di Taiwan, infatti, Washington gioca un ruolo fondamentale. Anche se, dopo la normalizzazione delle relazioni con la Cina comunista (in cui giocò un ruolo fondamentale la storica visita di Nixon in Cina nel 1972), gli Usa hanno formalmente interrotto i rapporti diplomatici con “l’isola ribelle”. Ma – con una di quelle “perfette contraddizioni” alle quali la politica estera Usa ormai ci ha abituato da sempre – il Taiwan Relations Act del 1979, pur negandone l’esistenza formale, conferma all’antica Formosa che può contare sul supporto degli Stati Uniti per difendere la sua esistenza, forniture di armi comprese. E – almeno per ora – proprio l’appoggio degli Usa a Taipei costituisce il principale deterrente nei confronti dell’invasione armata dell’isola da parte della Repubblica Popolare Cinese. La superiorità delle forze statunitensi ha finora sconsigliato a Pechino di adottare una soluzione manu militari per riprendere il controllo dell’isola. Ma Tsai è ben consapevole che l’opzione militare resta sul tavolo, e sa altrettanto bene che la situazione potrebbe precipitare immediatamente di fronte ad una formale dichiarazione di indipendenza, fino ad oggi sempre ventilata ma mai messa in pratica, e per questo pare intenzionata a preservare lo status quo, senza però cedere alle pressioni di Pechino.

Ieri l’isola ha festeggiato anch’essa, così come ha fatto la Cina comunista, l’anniversario della Rivolta di Wuchang del 1911, dando vita al suo “national Day”, vissuto però con spirito diametralmente opposto a quello celebrato nelle stesse ore a Pechino. Una grande parata militare – risposta più che simbolica alle recenti, massicce, incursioni aeree cinesi nei suoi cieli – ha fatto da scenografia all’infiammato discorso della presidente Tsai, che ha affermato che Taiwan continuerà a rafforzare la difesa nazionale e a “dimostrare la sua ferma determinazione a difendersi”, per opporsi alla strada “che la Cina ha tracciato”, riaffermando poi con decisione il diritto all’autodeterminazione per i 23 milioni di cittadini taiwanesi.

Adesso però, tra le preoccupazioni della combattiva presidentessa taiwanese, si è inserito un nuovo protagonista. Si tratta di Eric Chu, nuovo leader del Guomindang, il “vecchio”, pluri-trasformista e ormai apertamente filocinese Partito nazionalista (KMT), fondato in origine proprio da Chang Chai Shek, che conta sull’esplicito appoggio di Xi Jimping il quale spera che possa tornare in corsa per la vittoria alle future elezioni del 2024, imprimendo uno stop decisivo al processo di “taiwanizzazione” del Partito, in corso da tempo.

La partita planetaria che si gioca ormai attorno alla piccola Taiwan, insomma, è tutt’altro che definita, e nel burrascoso rapporto tra il Golia cinese e l’ostinato Davide taiwanese, tutto può ancora accadere

(Huffpost)

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