29 Marzo, 2024
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“I pm della Trattativa con fare moraleggiante hanno preteso di fare gli storici”

Intervista al giurista Fiandaca: “Compito del processo penale non può essere quello di processare la storia e la politica.

 

In questi anni, per aver “osato” criticare l’impostazione dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia si è preso gli appellativi di giustificazionista o, addirittura, negazionista. Ora che c’è un giudice che quell’inchiesta l’ha completamente smontata – spazzando via anche la sentenza di primo grado – Giovanni Fiandaca, noto e apprezzato giurista, professore emerito di diritto penale all’Università di Palermo, naturalmente non cambia idea. Anzi, intervistato da Huffpost, ribadisce: “Le indagini andavano archiviate prima di iniziare il processo”. Ieri la corte d’Appello di Palermo ha assolto dall’accusa di minaccia a un corpo dello Stato gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri. In primo grado avevano avuto condanne pesanti. La sconfitta dell’accusa è chiara. E Fiandaca non è tenero con i pm che, “con un certo pregiudizio negativo” e “una inclinazione moraleggiante”, hanno provato a fare gli storici. Ma nelle aule dei tribunali si processano i reati, non la storia. Dovrebbe essere scontato, ma casi come questo dimostrano che così non è.

Questa assoluzione cambierà la percezione dei fatti agli occhi dell’opinione pubblica? Per il professore è difficile a causa del “bombardamento mediatico” che ha ricevuto sull’inchiesta. Come se la verità fosse già lì, nelle carte dei pm che non dimostravano alcunché. E se l’accusa ha sbagliato, anche i media hanno fatto la loro parte: ”È dannoso per i cittadini fornire un’informazione mediatica con modalità tali da dare per dimostrate verità giudiziarie tutt’altro che incontrovertibili”. E quanto quelle verità fossero fragili è stato dimostrato ieri, quando un castello costruito per decenni è crollato.

La sentenza d’appello sulla “trattativa Stato-mafia” ribalta il primo giudizio e smonta l’inchiesta. Per prima cosa le chiederei un commento sulla decisione del giudice.

Tenderei a condividere questo ribaltamento, essendo stato come studioso di diritto penale, non da ora, tutt’altro che convinto dell’impostazione accusatoria del processo trattativa. Mi riservo di leggere naturalmente con molta attenzione la motivazione di questa sentenza quando sarà disponibile.

Un paio d’anni fa, in un intervento sul Foglio, lei aveva sostenuto che dall’inchiesta emergeva un “approccio storiografico criminalizzante”. Ci spiega cosa vuol dire?

Nel senso che l’inchiesta, così come poi la sentenza di primo grado, pretendeva di far luce non solo sull’evoluzione di Cosa nostra, ma anche su vicende complesse e oscure della storia italiana dalla metà degli anni ’60 ai nostri giorni. Un compito ricostruttivo arduo questo, sia per un pubblico ministero, sia per un giudice: oltre a non avere l’uno e l’altro l’attrezzatura dello storico di mestiere, vanno incontro al rischio di ricostruire gli accadimenti storici in una ottica pregiudizialmente strumentale a individuare responsabilità penali, così forzando appunto l’interpretazione storiografica.

La corte d’appello di Palermo ci dice che la trattativa c’è stata, ma non costituiva reato. Ponendo sotto i nostri occhi anche una, se vogliamo cinica, realtà storica. Vien da pensare, come è stato possibile che la procura abbia creato un’inchiesta sulla base di fatti esistenti ma non penalmente rilevanti? 

Purtroppo le ricostruzioni giudiziarie preesistenti rispetto a questa sentenza di appello, a mio avviso, non hanno chiarito a sufficienza come fosse davvero da intendere questa famosa trattativa, termine abbastanza generico che può significare diverse cose. Sono curioso di vedere in che senso ne parla questa sentenza di secondo grado. In ogni caso, sul piano giuridico, la difficoltà principale dell’indagine è consistita sin dall’inizio nell’individuare una pertinente e plausibile figura di reato. Da questo punto di vista, un giurista come me può giungere a sostenere che l’indagine andava archiviata senza arrivare a un processo.

Non le sembra che, nella ricostruzione giudiziaria di questa storia, si sia creata confusione – consapevole o no – tra fatti sui quali al più si può dare un giudizio morale negativo e quelli che, invece, meritano di finire davanti a un giudice? 

Sì, anche a mio giudizio si è creata una confusione o sovrapposizione tra pregiudiziale disapprovazione etico-politica della trattativa e propensione a elevarla a delitto, solo che la stessa disapprovazione etico politica non è scontata in partenza: se il fine di uno scambio tra mafia e stato è davvero quello di bloccare una strategia stragista per salvare vite umane, questo scambio non è necessariamente illecito, immorale o turpe; dipende dai modi e dai contenuti.

Ricostruzioni come quelle che hanno preceduto la sentenza di ieri possono devastare la vita delle persone, degli imputati nello specifico. Perché succede che l’accusa a volte si allontana dal codici per imbracciare delle visioni che dovrebbero essere, al più, dello storico e non del pm?

Ci sono diverse ragioni che possono indurre una parte della magistratura penale a pretendere di fare storiografia in concorrenza o in conflitto con gli storici di professione, tra queste, verosimilmente, un forte pregiudizio negativo e una inclinazione moraleggiante che fanno presumere di potere e dovere rileggere la storia italiana degli ultimi decenni con le lenti del codice penale. Aggiungerei una auto-percezione di ruolo che tende forse a enfatizzare le presunte superiori potenzialità cognitive del processo penale e, altresì, la presunta funzione pedagogica che spetterebbe al potere giudiziario nell’illuminare i cittadini sulle ricorrenti collusioni politico-criminali che rappresenterebbero una sorta di caratteristica prevalente della storia del nostro paese. Ma compito del processo penale non può essere quello di processare la storia e la politica. E soprattutto non è seriamente credibile l’assimilazione tra storia italiana e storia criminale.

In tutti questi anni chi metteva in dubbio la rilevanza penale della “trattativa” è stato bollato con il termine negazionista. È negazionista pure la corte d’Appello (e i giudici che hanno assolto in via definitiva Mannino) o forse è il caso che i sostenitori della trattativa facciano autocritica? 

Io a causa dei miei scritti critici sulla trattativa sono stato pubblicamente definito, persino da qualche pubblico ministero impegnato nell’indagine e poi nel processo, “negazionista o giustificazionista”. Mi pare abbastanza grave che sia potuto accadere nel nostro Paese, come cosa pressoché normale, che venisse con questi termini discreditanti etichettato un giurista che, criticando l’impostazione giuridica di un processo, non fa altro che il suo mestiere.

In alcuni suoi interventi, lei ha fatto riferimento a “un pregiudizio mafiocentrico nell’interpretare la storia”. A cosa è dovuto, secondo lei? E, soprattutto, che conseguenze ha per l’opinione pubblica?

Credo di avere già almeno in parte implicitamente risposto a questa domanda. Il pregiudizio mafiocentrico può essere in ogni caso il risultato di una deformazione professionale dei magistrati antimafia.

 La formula “il fatto non costituisce reato”, alla base dell’assoluzione degli ex ufficiali del Ros la narrazione di un intero periodo storico e, forse, di alcuni suoi protagonisti. Gli assolti di oggi per anni sono stati tacciati, in sostanza, di essere stati dei traditori dello Stato. Con la pronuncia di ieri cambierà qualcosa o teme che la percezione, agli occhi dell’opinione pubblica, resterà la stessa?

L’indagine “trattativa” ha costituito oggetto, specie nei primi anni, di uno storytelling multimediale (attraverso articoli giornalistici, trasmissioni televisive, libri, pezzi teatrali e film), che ha insistentemente veicolato nel pubblico la convinzione non solo che una trattativa tra Stato e mafia ci fosse stata, ma che costituisse anche un grave crimine. Ed è anche per questo che io ho subìto aspre critiche per aver avuto l’ardire di porre in dubbio la fondatezza del processo. Stante questo bombardamento mediatico a sostegno dell’accusa e della sentenza di condanna di primo grado, questa assoluzione in appello rischia di risultare disorientante agli occhi della maggioranza dei cittadini. In realtà penso che oggi buona parte del sistema mediatico dovrebbe fare autocoscienza e autocritica. È sbagliato e dannoso, per i cittadini, fornire un’informazione mediatica con modalità tali da dare per dimostrate verità giudiziarie tutt’altro che incontrovertibili. Anche per i giornalisti contribuire alla lotta alla mafia non può equivalere a sostenere acriticamente ogni processo penale per fatti di mafia.

Per le motivazioni della sentenza d’appello dovremo attendere ancora. Conosciamo, però, le 5200 pagine della sentenza di primo grado. In un commento sulla Rivista italiana di diritto e procedura penale lei ne evidenziava alcuni punti deboli. Potrebbe sintetizzarceli?

Non è facile sintetizzarli. Provando a farlo, le dico che in quel mio commento mettevo in evidenza punti deboli relativi sia alla ricostruzione in fatto, perché questa mi appariva ben lontana dal riflettere il rigore probatorio richiesto dal principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, sia all’impostazione giuridica, per la oggettiva difficoltà tecnica di ritenere davvero configurabile il reato di minaccia a un corpo politico previsto dall’articolo 338 del codice penale. Entrare qui nel merito più specifico di queste ragioni sarebbe troppo complicato, per cui rinvio ai miei scritti.

(Huffpost)

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