28 Marzo, 2024
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Cosa dice la sentenza sulla Trattativa Stato-mafia di un pezzo di storia d’Italia

Per i giudici quello degli ex Ros era un modo per provare a fermare Cosa nostra in una fase storica in cui quelli erano i mezzi che avevano.

 

C’è uno strano incrocio tra indagini, ipotesi di reato e fatti storici nella lunga vicenda della trattativa Stato-mafia, culminata – non finita, ricordiamo sempre il terzo grado di giudizio – ieri con l’assoluzione di Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, ex ufficiali del Ros perché “il fatto non costituisce reato” e dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri “perché il fatto non sussiste”. Strano perché con la costruzione dell’inchiesta è stata data una precisa interpretazione della storia. Un orientamento corroborato non tanto, o non solo, da quelle che potevano essere ritenute prove quanto da elementi che Grazia Volo, avvocato di Calogero Mannino, ha definito extragiuridici. Ma altrettanto strano perché, ironia della sorte, l’assoluzione consente – o costringe – l’opinione pubblica a rivederla quella storia. A chiedersi cosa è accaduto davvero e come è, invece, stato percepito.

“Compito del processo penale non può essere quello di processare la storia e la politica”, ha detto oggi ad Huffpost il professore Giovanni Fiandaca, tra i pochi a esporre tutti i suoi dubbi sull’inchiesta sulla trattativa, fino a definirla “una boiata pazzesca”. E invece in questo pezzi di storia sono finiti sul banco degli imputati, e con questo elemento bisognerà necessariamente fare i conti. Se non altro per rimettere le cose in ordine. Per distinguere i fatti dall’interpretazione che di questi hanno dato non gli storici, che lo fanno per mestiere, ma alcuni pm. Che devono perseguire i reati e non, per citare ancora Fiandaca, fare i moralizzatori.

Cosa ci dice, allora, la sentenza d’appello sulla trattativa? Ci dice innanzitutto che i tre ex Ros non erano dei traditori dello Stato che avevano deciso di andare incontro alla mafia. Erano persone che, in un momento storico in cui la criminalità organizzata era così forte da far cadere sotto le sue bombe uomini delle istituzioni, hanno tentato di fare il loro lavoro con i mezzi che avevano. Avvicinare la mafia tramite Vito Ciancimino – perché hanno avuto contatti con il sindaco mafioso di Palermo, per loro stessa ammissione – potrà sembrare qualcosa di cinico, di repellente, di indigeribile addirittura, ma non era reato. Claudio Martelli, ministro della Giustizia  tra il ’91 e il ’93, va in questa direzione quando dice a Repubblica che lui qualche dubbio sulle modalità dei contatti l’ha avuto, ma questo non significa che “ci fu una vera trattativa, che quelli erano degli ufficiali felloni, che hanno tradito lo stato!”. Quello adottato dagli ex Ros, insomma, era un modo per provare a fermare Cosa nostra, in un momento storico in cui i mezzi erano evidentemente pochi. Aspetteremo le motivazioni, ma questo è in sostanza ciò che la sentenza ci dice. Ce lo dice ora, dopo che per 20 anni la percezione sull’operato di Mori, De Donno e Subranni è stata tutt’altra.

C’è poi la posizione di Marcello Dell’Utri. Se per gli ex Ros si dice che il fatto esiste ma non è reato, nel suo caso i giudici d’appello dicono che il fatto non sussiste. Ma di che fatti parliamo? Per i pm l’ex senatore di Forza Italia, nel 1994 – quando Totò Riina era già stato arrestato – avrebbe fatto da tramite tra la mafia e Silvio Berlusconi, diventato premier a maggio di quell’anno. I mafiosi, è la tesi della procura a cui la corte d’appello non ha dato seguito, una minaccia da recapitare al presidente del Consiglio in modo che fosse approvata una norma a favore dei boss. Per l’accusa – e anche per i giudici di primo grado – questa norma era il decreto Biondi, che restringeva la possibilità di arresto dei boss senza esigenze cautelari. Quel decreto fu ritirato perché Roberto Maroni, allora vicepremier, si oppose. I boss non furono ‘salvati’, ma quel che conta di più in questa fase è che per la corte d’appello Dell’Utri non fece da tramite per alcuna minaccia diretta a Berlusconi. Questa decisione, però, si scontra con un giudizio definitivo sull’ex senatore di Forza Italia. Nel 2014, infatti, Dell’Utri è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa per aver, ha deciso il giudice, fatto da tramite tra Cosa Nostra e Berlusconi in un periodo precedente rispetto a quello cui si fa riferimento nel giudizio finito in secondo grado ieri: tra il 1974 e il 1992. Scarcerato nel 2019, l’ex senatore ha commentato così la sua assoluzione di ieri: ”È un film, una cosa inventata
totalmente. Io questo processo non l’ho neanche seguito. Mi sono sentito quando sono andato a Palermo all’udienza come un turco alla predica, non capivo di cosa stessero parlando. Questa cosa era inesistente però purtroppo avevo paura che potessero avallare queste cose inventate servendosi dei soliti pentiti che hanno bisogno di dire cose per avere vantaggi, e di molta stampa che affianca le procure e soprattutto la procura di Palermo. Questo mi preoccupava, ma speravo intimamente nell’assoluzione”.

Ci sono poi altre due figure in questa lunghissima storia della trattativa. Una è quella di Calogero Mannino, ex ministro della Democrazia Cristiana che, nella ricostruzione della procura era stato il motore della trattativa, una figura determinante. E tale pareva non solo nelle carte dei pm, ma anche agli occhi dell’opinione pubblica. Ora, Mannino è stato assolto con formula piena, in tre gradi di giudizio dall’accusa di aver tramato con la mafia. Ma è stato assolto anche, dopo un iter processuale lunghissimo, dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’ex ministro ha definito la sua vicenda giudiziaria “una lunga via crucis durata trent’anni”. Trent’anni in cui è stato considerato mafioso.

Mannino è stato assolto nel rito abbreviato e nei fatti quella decisione ha anticipato l’esito della sentenza di ieri. L’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino, invece, è stato assolto in primo grado. La procura non ha impugnato e, così, la sentenza è diventata definitiva. A Mancino si contestava la falsa testimonianza perché aveva negato che l’allora ministro della Giustizia Martelli gli avesse riferito dei contatti tra i Ros e Ciancimino. Non solo è stato assolto in primo grado, ma l’accusa non ha evidentemente ritenuto di avere gli elementi per impugnare la sentenze. La procura di Palermo aveva accusato Mancino di aver tentato di ostacolare le indagini sulla trattativa, anche attraverso alcune telefonate al Quirinale. All’epoca era presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di quelle conversazioni, per le quali il Colle sollevò un conflitto di attribuzione davanti alla corte Costituzionale, Mancino dirà: “A posteriori penso che sarebbe stato preferibile non telefonare a Loris D’Ambrosio (il consigliere giuridico di Napolitano, ndr). Ero preoccupato, eravamo in piena bufera giornalistica”. Fu poi la stessa procura a tornare in qualche modo su suoi passi.

Ad un certo punto l’inchiesta della procura di Palermo tirò nel calderone negli indagati anche Giovanni Conso, ministro della Giustizia tra il ’93 e il ’94, per false informazioni ai pm. Gli si contestava di non aver rinnovato, nel 1993, oltre 300 41 bis. Quando si richiama alla mente questo episodio, naturalmente vero, ci si dimentica però di una sentenza della corte Costituzionale imponeva di valutare caso per caso quando si andava a prolungare il carcere duro. E che molti detenuti che passarono ad altro regime non erano mafiosi.

La vicenda della trattativa ci porta dritti a un altro grande caso giudiziario italiano: quello della morte del giudice Paolo Borsellino e dell’infinito depistaggio sui responsabili. Già la sentenza d’appello del Borsellino quater, il processo in cui si mette nero su bianco il ‘teorema Scarantino’ si dice che certamente il magistrato non fu ucciso perché si opponeva a presunte trame tra Stato e mafia, ma perché Cosa nostra voleva vendicarsi del maxi processo e temeva un dossier su cui Borsellino stava lavorando: mafia-appalti. Ed ecco che ora che sembra assodato che la trattativa, per come ce l’avevano raccontata, non esiste, le mancanze che ci sono state nell’appurare i responsabili della morte di Borsellino sembrano ancora più evidenti. E forse su questo bisognerebbe porsi qualche interrogativo in più. Sono passati tanti anni, ma qualcosa ancora si può ricostruire.

“Io i miei dubbi su questa operazione li avevo espressi fin dall’inizio – ha detto all’AdnKronos la figlia del giudice ucciso in via D’Amelio, Fiammetta – La grande amarezza è che queste energie investigative dedicate al processo trattativa potevano essere indirizzate verso delle piste che, secondo me, volutamente non si sono percorse. Ancora una volta siamo di fronte al fatto che si sono seguite piste inesistenti quando da sempre abbiamo ribadito che bisognava approfondire quel clima che mio padre viveva dentro la Procura di Palermo”. Il magistrato, poco prima di morire, si era confidato con la moglie: “Si doveva approfondire il filone dei dubbi e del senso di tradimento che mio padre manifestò parlando a mia madre dei colleghi, il perché non si è voluto indagare su l Procuratore Giammanco. Secondo noi queste erano le piste su cui si doveva indagare, non altre…”. E a chi insinua che la trattativa accelerò l’uccisione del padre, risponde: “Per noi l’accelerazione è stata data dal dossier mafia e appalti ma non lo dice la mia famiglia – dice ancora Fiammetta – lo dice il processo Borsellino ter, che l’elemento acceleratore è stato il dossier mafia e appalti che è stato archiviato il 15 luglio, cioè pochi giorni prima della strage. Nonostante mio padre il 14 luglio avesse chiesto conto e ragione del perché a quel dossier non venisse dato ampio respiro”. Il dossier su cui Borsellino voleva lavorare, e che faceva paura ai mafiosi al punto da decidere di velocizzare l’omicidio del giudice, era firmato da Mori e De Donno. Gli stessi che per oltre dieci anni sono stati considerati dei traditori dello Stato.

(Huffpost)

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