18 Aprile, 2024
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La sinistra si tuffi nella modernità, reinventi lo Statuto dei lavoratori

Non è mai stata liberale ma adesso ha l’occasione di essere al passo coi tempi.

 

Il dibattito aperto dall’Economist sulle tensioni illiberali della sinistra, in Italia non ha molto senso. Come avverte Enrico Franceschini in un bel pezzo sulla Repubblica, l’Economist parla dei liberal, categoria più complessa, trasversale e, oso aggiungere io, quando parla alla sinistra parla alla sinistra anglosassone, profondamente diversa dalla nostra che fino dalle origini è stata irrimediabilmente marxista: nel drammatico congresso di Livorno 1921, con la scissione da cui nasce il partito comunista, i contendenti rivaleggiano su chi offra la più fruttuosa interpretazione di Marx. Il socialismo liberale dei fratelli Rosselli genera il meglio della sinistra italiana, produce un pensiero politico vivacissimo, ma finisce subito in diaspora e infertilità, anche per l’opposizione spesso digrignante o sarcastica del porporato comunista. Il dibattito dell’Economist da noi non ha senso perché nel Dopoguerra non soltanto il Pci ma anche il Psi vede il suo orizzonte nel marxismo-leninismo (Bettino Craxi arriverà molto dopo e finirà molto male): la sinistra italiana è illiberale, lo è di natura, lo è orgogliosamente: è una constatazione, non una critica – significherebbe processare il Novecento, programma ambizioso.

La sinistra della Seconda Repubblica nasce invece su Mani pulite, trova la sua costituente sul mito dell’onestà (potrà mai essere un programma politico?) e marca il punto di distacco dalla disonestà di tutti gli altri. In fondo era il succo della questione morale dell’intervista di Enrico Berlinguer con Eugenio Scalfari del 1981. Non è più marxista-leninista ma fa un salto indietro anziché in avanti, e diventa giacobina. Voi capite che chiedersi se la sinistra italiana stia manifestando qualche sintomo di illiberalità è comico: prima non era liberale né voleva esserlo, ora vorrebbe e non sempre ce la fa perché non ha costruito (faticosamente) una nuova identità di sinistra liberale, ma mette insieme qualcosa del prima e qualcosa del dopo, cioè un egualitarismo di maniera e la scappatoia giacobina, con effetti talvolta parodistici nell’alleanza coi grillini.

Fra l’altro l’Economist si riferisce a una quota di intolleranza per le idee opposte e nella feroce deriva della cancel culture. In Italia per fortuna la cancel culture non deborda, rimane su qualche palcoscenico e in qualche flash mob. L’intolleranza è invece un’eredità antica, applicata oggi con particolare furore alla grande battaglia dei diritti, l’unica vera novità della sinistra contemporanea. Chiunque ardisca avanzare un dubbio, è immediatamente rubricato alla voce di fascista. Il caso più eclatante riguarda il ddl Zan, che non introduce alcun diritto nuovo, ma soltanto nuove punizioni, niente più che il demandare la questione ai tribunali. E ai ceppi del carcere. Alla fine siamo di nuovo al giacobinismo.

Fa bene Ezio Mauro a sollecitare la sinistra a riprendere in mano la questione del lavoro, perché la litania dei trent’anni del liberismo selvaggio, ripetuta ancora pochi giorni fa da Romano Prodi, è consolante e fuorviante. Negli ultimi trent’anni non c’è stato un liberismo selvaggio come azione di governo, non c’è stato nessun programmatico laissez faire, si è lasciato fare per mancanza di alternative. Né la destra né la sinistra hanno preso coscienza e contromisure al mondo globale e interconnesso, non hanno mai provato a governarlo, se ne sono fatti travolgere, e mentre la destra ora ripara nella ridotta del Novecento (confini, protezionismo, identità etnica), la sinistra continua ad assecondarlo per malinteso progressismo, e al massimo cerca di mitigarlo con le toppe altrettanto novecentesche dell’assistenzialismo, che sono eccezionali ed emergenziali oppure sono una resa.

Il lavoro, scrive Ezio Mauro, crea coscienza, appartenenza, riconfigura il sociale, rivendica diritti e cittadinanza, chiede rappresentanza politica e – aggiungerei – consegna un senso di comunità. Ma deve essere un lavoro dignitoso e dignitosamente retribuito, e oggi noi non abbiamo gli strumenti per garantirlo, non li abbiamo davanti al dominio della globalizzazione e dell’algoritmo, che non vanno né subiti né combattuti ma governati. Una sinistra moderna e consapevole (ma pure la destra, eh) avrebbe dovuto da tempo mettere assieme le menti migliori del paese, studiare il nuovo mercato del lavoro, proporre nuove contromisure, investire sei mesi del suo tempo per riscrivere lo statuto dei lavoratori, buttarsi cioè a capofitto nella modernità, che è l’unico modo che io conosca per essere onesti: non le mani, ma i cervelli puliti. Poi, guarda mai, si diventa persino un po’ più liberali.

(Huffpost)

 

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