28 Marzo, 2024
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Il rito dell’avvocato milanese per ringraziare chi l’ha rimesso in piedi dopo il Covid 

A quattro mesi dalla guarigione Andrea Del Corno, noto legale del Palazzo di Giustizia milanese, racconta della sua “nuova famiglia”, in particolare di chi ha seguito la sua riabilitazione dopo essere stato quasi due mesi intubato 

Un caffé al bar del Policlinico, uno alle macchinette della Fondazione Maugeri. Una tazzina dove l’hanno intubato e poi risvegliato, l’altra dove l’hanno rimesso, robusto quanto bastava, sulle strade del mondo. Quattro mesi di cure in tutto per un Covid violento.

Ora quello del caffé con medici, infermieri e fisioterapisti è per Andrea Del Corno, avvocato popolare nel Tribunale di Milano anche per il suo impegno negli organismi di rappresentanza, un rito da esercitare a giorni alterni, a cui non riesce più a rinunciare. Una ‘deviazione’ spensierata in Vespa dagli impegni di lavoro e da una vita che è rifiorita. Vuole raccontare all’AGI cosa c’è dietro quel caffé “perché non si parla abbastanza di quello che succede ‘dopo’ la malattia, dei volti e dei sorrisi di chi ti sradica dagli abissi del virus”.

“Il primo stupore per la luce del giorno”

La sua storia inizia come tante ascoltate in quest’ultimo anno: “All’improvviso, ai primi di novembre 2020, il Covid mi ha staccato la spina, sono stato intubato nella terapia intensiva del Policlinico e travolto da un’onda che ha sommerso me e la mia famiglia. L’ultimo pensiero che ricordo con chiarezza è stato quello di non voler morire in quel modo e la mia volontà di stare a galla è stata spinta e sostenuta dalla determinazione quotidiana di medici e infermieri a voler sconfiggere la malattia. Le telefonate a casa ogni pomeriggio, mentre ero perso in un corridoio buio, con le quali i miei venivano aggiornati, sono state l’unico strumento, prezioso, per non perdere il filo tra di noi”.

A metà dicembre il risveglio, “la seconda vita”. “Difficile rendere in poche righe un’esperienza di degenza così lunga, ma la consapevolezza di essere stato salvato e di dover ricominciare tutto da capo è stato qualcosa di unico; grazie all’attenzione e alla qualità delle cure, dopo l’intubazione ero infatti ancora una persona e da quello sono potuto ripartire. Sono stato trasferito dal Policlinico alla Maugeri a metà gennaio 2021 e accolto subito con un autentico abbraccio; rimane nella mia memoria il viaggio in ambulanza dal Policlinico che è stato accompagnato dallo stupore per la prima luce del giorno che non vedevo da mesi e dall’attesa di trovare un luogo dove poter avere il supporto per riprendere tutto quello che avevo lasciato”.

“L’infermiere che mi parlava di Africa e portava lontano”

L’inizio è l’immagine di un uomo brillante, abituato a districarsi tra fascicoli, conferenze, passione politica, famiglia, che non riusciva più “a spostare le lenzuola con le mani”. “In una fase iniziale non ho avuto la percezione di quanto ero distante dalla persona che ero in condizione di salute, io ero allettato e totalmente assistito perché il salto tra le due condizioni è così violento che si resta come accecati e privi di energia”.

Sfilano volti e momenti nella sua memoria, “come quello di Alejandra Rivera, fisioterapista con Paola Perdoni del reparto sub acuti, che mi ha preso sotto il suo controllo e lo dico con semplicità e con commozione per quanto le devo e mi ha dimostrato che potevo iniziare a camminare, a stare in piedi da solo e a riprendere la vita. Questa emozione è stata straordinaria e decisiva tanto che ha prodotto anche l’entusiasmo di dimostrare a mia moglie, un sabato, quanto riuscivo a fare alzandomi dalla sedia con relativa caduta dopo un passo con inevitabile rimprovero di tutti”.

“Lo sprone imbattibile di Paola con il caffè con lei alle due del pomeriggio, uno dei momenti che hanno contribuito a farmi capire bene che esisteva ancora una vita e che si poteva riviverla di nuovo e con Alejandra mi sono impegnato mettendo tutto me stesso. La palestrina di quel reparto è nella mia memoria in ogni dettaglio. Con loro e con tutti gli altri ci sentiamo anche adesso”.

E ancora, “i discorsi sull’Africa con Patrick, infermiere in sub acuti, che per qualche momento mi portavano lontano, gli indimenticabili momenti di chiacchiera, anche per l’umore, con l’abile nutrizionista Paola Mariani, che mi ha seguito tutto il primo mese quotidianamente, mentre mescolavamo un ‘beverone’, utile alla ripresa”.

“Loro sono la mia nuova famiglia”

“Forse non si diventa particolarmente saggi o necessariamente migliori dopo esperienze del genere – riflette Del Corno – ma si impara sulla propria pelle a capire la qualità e l’impegno di chi si trova lungo il cammino perché si diventa completamente dipendenti dagli altri per un lungo periodo; è come se la tua esistenza si sintonizzasse di colpo su un canale nuovo e Maugeri trasmetteva sulla frequenza del recupero, della ripresa e della forza a tornare alla vita e agli affetti. Bisogna mettercela tutta senza lamentarsi, anche se qualche piccolo lamento a volte è utile, ma la strada c’è e nessuno di quelli da me incontrati si è mai tirato indietro nel percorrerla insieme”.

Del Corno ora sta bene, “vado in studio e i miei figli si lamentano di me, ottimo segno. Il mio amico Giorgio Cavallari cita sempre l’alpinista Bonatti, il quale diceva che da una tragedia in montagna era tornato chi aveva una famiglia; c’è del vero e la vita con mia moglie lo testimonia, ma io voglio mettere nella mia nuova famiglia tutte le persone straordinarie che ho incontrato in questo cammino, espressione della vera qualità e dedizione della migliore sanità italiana”.

(Agi)

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