20 Aprile, 2024
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Marco Bentivogli: “Chi paga meno di 5 euro netti l’ora va chiuso”

Intervista al coordinatore di Base Italia: “È il momento di introdurre una soglia salariale di decenza”

 

“In Italia è arrivato il momento di introdurre una soglia salariale di decenza: un’ora di lavoro non può essere pagata meno di cinque euro netti. Se si va sotto questa soglia allora l’azienda deve chiudere e poi si riapre ad alcune condizioni”. È il coordinatore nazionale di Base Italia ed ex segretario generale dei metalmeccanici Fim Cisl, Marco Bentivogli, a lanciare la proposta nell’ambito del dibattito sulla questione salariale sollevato da Huffpost. Un warning alle imprese che pagano il lavoro poco, sempre di meno e in nero: “Se vogliamo aprire gli occhi e affrontare il problema del lavoro povero senza rivendicare principi dobbiamo introdurre misure radicali”.

Bentivogli, ci spieghi meglio la sua proposta.

La soglia di decenza (da non confondere con il giusto salario che spetta), pari o superiore almeno a cinque euro netti per un’ora di lavoro, va applicata a tutti i settori che impiegano lavoratori non coperti dai contratti collettivi. Mi riferisco ai cosiddetti finti autonomi: sono autonomi solo a parole perché in realtà le aziende li fanno lavorare come dipendenti. Se i lavoratori guadagnano meno dell’importo di questa soglia – e questo succede perché c’è chi prende anche meno di tre euro – allora l’azienda va chiusa. Poi si verifica a quale contratto collettivo fa riferimento perché il minimo di decenza non deve fare concorrenza ai contratti collettivi nazionali che devono rimanere il riferimento per il giusto salario.

Quanto è grande l’esigenza che spinge a introdurre una soglia minima per un’ora di lavoro?

Mi permetto di dire che è enorme. Ci sono quasi tre milioni di lavoratori che hanno una paga oraria al di sotto di qualsiasi contratto collettivo nazionale. Parliamo di lavoratori che guadagnano meno di 9 euro lorde all’ora. Il problema è che bisognerebbe avere degli elementi veri con cui affrontare questa questione.

In che senso veri?

Abbiamo un problema di conoscenza dei dati perché siamo il Paese campione di evasione fiscale e di lavoro nero. Non abbiamo solo i lavoratori poveri, ma anche 10 milioni di dichiarazioni di redditi che sostanzialmente producono una tassazione nulla: anche questo è un elemento che va preso in considerazione quando si parla di chi vive sotto la soglia di povertà pur lavorando.

Restiamo al lavoro povero. Le cause sono diverse, a iniziare dalla scarsa produttività, ma i dati parlano di 5,2 milioni di lavoratori che guadagnano meno di 10mila euro lordi all’anno. Possibile che non si può fare nulla per impedire salari che non sono dignitosi?

A mio avviso ci sono due problemi che hanno impedito di evitare il massacro dei salari. Il primo è che tutti i governi, al di là del colore politico, hanno depotenziato il ruolo e gli organici delle autorità ispettive. Tutte le campagne sui controlli continui che vengono fatte vedere sono in realtà false perché i controlli sono pochi e a campione. Il secondo problema è che il numero di contratti collettivi, inclusi quelli pirata, complica l’operazione di rilevazione delle irregolarità e delle successive sanzioni.

Lei vanta una lunghissima esperienza sindacale, conosce benissimo le dinamiche distorte che si nascondono dietro il lavoro povero. Proviamo a farle venire alla luce.

Voi di Huffpost avete messo ben in evidenza il cosiddetto lavoro a scacchi. Ci sono poi altre forme. Negli appalti, in particolare nella cantieristica navale, si utilizza spesso una paga onnicomprensiva, la cosiddetta “paga globale”: ci si mette d’accordo su un determinato compenso a prescindere dai contributi e dalle altre voci di una busta paga regolare. Il risultato è che la busta paga non c’entra nulla con quello che il lavoratore – soprattutto extracomunitario, in particolare del Bangladesh – percepisce.

Quali sono le altre forme di lavoro irregolare ancora poco conosciute?

Il commercio online è un settore dove nelle aziende in appalto, spesso italiane, spesso cooperative, si tengono i lavoratori in condizioni salariali, e in generale lavorative, inaccettabili.

La questione dei salari bassi è ritornata alla ribalta dopo che alcune imprese hanno lamentato di non riuscire a trovare lavoratori da impiegare. Non si trovano cuochi, camerieri, bagnini, ma anche profili con competenze informatiche. Hanno ragione?

Io inviterei tutti ad analizzare bene questo fenomeno. Il 10% delle aziende che dicono di non trovare lavoratori lo fa per marketing. Ricordo quando alcune aziende in Veneto dicevano che non riuscivano a trovare impiegati: alla fine si scoprì che nemmeno aprivano la casella di posta elettronica dove arrivavano i curriculum. Ma il tema del disallinemento tra le professionalità che sforna il sistema di istruzione e quelle più richieste è reale.

Il tema, però, è ancora aperto. Molte imprese insistono su questo punto, anzi rilanciano questo ragionamento sostenendo che la colpa è del reddito di cittadinanza. Lei crede che un bagnino preferisca il reddito invece che andare a lavorare?

Più che un effetto di sostituzione tra il reddito di cittadinanza e il lavoro c’è un altro fenomeno che riguarda sempre il Rdc: ci sono molti casi di lavoratori che lo prendono e poi aggiungono un lavoro in nero per cumulare così due redditi. Poi ci sono i part-time obbligatori, che riguardano soprattutto il terziario: 3-4 ore al giorno con paghe più basse del reddito di cittadinanza. In ogni caso la misura va modificata. Non si possono chiedere tirocini ed esperienze professionali, quando quelle di accesso sono piene di abusi.

Perché il reddito di cittadinanza va modificato?

Rischia di essere un disincentivo in un sistema dove la selettività la pratica lo stesso. Bisogna assolutamente inserire nel reddito di cittadinanza l’obbligatorietà di un reinserimento professionale, magari pensando a percorsi obbligatori di formazione e di lavori di pubblica utilità.

Torniamo ai salari. Il giuslavorista Giuliano Cazzola dice che per aumentare le retribuzioni bisogna puntare sul contratto di prossimità mettendo da parte il primato del contratto nazionale di categoria. Lei è d’accordo?

Sì. Lo strumento principe per redistribuire i profitti che si generano dalla produttività è la contrattazione decentrata, territoriale per le piccole aziende, aziendale per quelle medio-grandi. Stiamo andando verso un sistema industriale più sartoriale con il 4.0: anche la contrattazione va decentrata il più possibile. Detto questo è stato giusto agire nell’ambito dei contratti nazionali, alzando i minimi contrattuali che erano troppo bassi. Il minimo salariarle di terzo livello per metalmeccanici era di 1.300 euro: troppo poco e per questo è stato giusto intervenire. Ma il futuro è avere contratti sempre più decentrati, come tra l’altro sostiene il Patto per la fabbrica siglato da Cgil, Cisl e Uil e Confindustria nel marzo 2018.

A proposito di meccanica. In Italia, secondo alcune ricerche, un’azienda su due del settore non riesce a trovare i profili lavorativi adeguati. La percentuale di difficoltà maggiore è tirare dentro chi ha competenze di base. Perché?

Su questo tema c’è un’erronea narrazione del lavoro: non si spende un euro per l’orientamento al lavoro e le persone hanno una percezione tutta televisiva del lavoro. La tv ci ha spiegato che dovevamo diventare tutti cuochi del calibro di Cracco o Cannavacciuolo, ma in realtà il lavoro in cucina è di base uno dei più usuranti. Adesso vanno di moda gli influencer, ma bisognerebbe anche guardare a quello che avviene dentro le fabbriche.

Cioè?

La demarcazione tra operaio e impiegato è sempre più sfumata, anche nella meccanica. Il lavoro dell’operaio è sempre più cognitivo: il suo resta un lavoro di mani, ma con la testa. E questa evoluzione vale anche per l’agricoltura: dobbiamo uscire dalla narrazione che il contadino è il lavoratore curvo sui campi con la zappa in mano. Ma questo lo possiamo fare solo se ovviamente ci ricordiamo che un conto è fare il bracciante, un altro lavorare in un’azienda agricola innovativa. Serve una narrazione vera del lavoro.

Al di là della rappresentazione del mondo del lavoro ci sono però i dati che attestano un fallimento dell’incrocio tra domanda e offerta. Come si cura questa disfunzione strutturale?

Bisogna intervenire sulla formazione. I dati di Almalaurea sull’alternanza scuola-lavoro ci dicono che chi li frequenta ha il 40% di possibilità in più di trovare un impiego dopo il primo anno di scuola: eppure gli ultimi governi hanno depotenziato l’alternanza. Un altro nervo scoperto è quello degli Its: l’Ocse ci ha tirato le orecchie perché ci vanno il 2% degli studenti a fronte di un’occupabilità superiore all′83 per cento. Negli altri Paesi non si considera una bestemmia spiegare ai ragazzi quali sono i settori e le competenze che sono più ricercate”.

Secondo gli ultimi dati dell’Oecd siamo penultimi, davanti solo alla Turchia, per numero di adulti che partecipano a percorsi di formazione professionale. Anche i giovani non sono esenti da questo gap. Al di là del tasso di partecipazione, non c’è anche il tema di quale formazione viene offerta?

Assolutamente: le colpe stanno da entrambe le parti. L’Italia spende circa la metà di quello che spende la Germania per la formazione e soprattutto utilizza male questi soldi. Per troppi anni siamo stati il tema formazione si risolveva nel  festival dei formatori, con una formazione iper-fordista, a cataloghi, con contenuti e metodo di apprendimento uguale per tutti, di fatto inutile.

Come si può invertire questo trend?

Nel contratto dei metalmeccanici del 2016 introducemmo il diritto soggettivo del lavoratore: c’è una quota minima di 8 ore all’anno, che resta comunque bassa perché in Germania se ne fanno 100, ma intanto è stato sancito il diritto soggettivo. Ora è necessario che questo diritto diventi valido per tutti, indipendentemente dal contratto, cioè anche se dura tre mesi, e soprattutto non deve essere il menù della pizzeria con un po’ di social e un po’ di informatica. La formazione va adattata alle persone: bisogna partire dalle competenze, analizzare i fabbisogni e intrecciarli con la strategia di impresa. Insomma la formazione deve diventare adattiva.

(HUFFPOST)

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