29 Marzo, 2024
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L’Italia è ancora un’anomalia ma stavolta positiva

L’Europa sta andando bene, ma ancor meglio il nostro Paese. Il vento sta cambiando

E se fosse la volta buona? Nel primo trimestre 2021 l’Italia è cresciuta dello 0,1%, meglio della media dell’Eurozona, scesa dello 0,3% a fronte di un calo atteso dello 0,6%. In sintesi: bene l’Europa, ma ancor meglio il nostro Paese.

Il vento sta cambiando.

A volte l’eccesso di esterofilia produce effetti perniciosi. Una quindicina di anni fa, subito dopo la prima grande crisi del Terzo millennio, l’Economist, adattando all’Italia un’immagine che in passato era stata ritagliata sulla Repubblica di Weimar, parlò del grande “malato d’Europa”. Impressionante quella sua copertina: con lo scarpone sostenuto da tante stampelle e quel titolo strillato a grandi caratteri. Fosse stata vera quella diagnosi, il malato dopo una gestazione così lunga sarebbe morto da tempo. Come avvenne appunto per la Repubblica di Weimar.

Se queste oscure profezie non si sono verificate, sebbene recentemente l’autorevole settimanale inglese sia voluto tornare sull’argomento con “Italy Spa è passata di moda”, la spiegazione è piuttosto semplice. Erano lucciole e non lanterne. Tuttavia, un loro effetto era stato ottenuto. Nell’immaginario collettivo era passato il messaggio di un Paese sempre in bilico tra incurie e possibili disastri. Senza che nessuno, salvo qualche solitaria eccezione, si sia mai curato di verificarne la consistenza. Per cui, ancora oggi, resta il problema di stabilire in che cosa consista questa anomalia italiana. Qual è la sua presunta dimensione?

Per questo abbiamo scelto di utilizzare come unità di misura gli aggregati tipici dell’Eurozona, direttamente desunti dalla banca dati di Banca d’Italia e di Eurostat. La ricerca è stata condotta per vedere se veramente l’Italia è quella cicala descritta in tanti interventi della pubblicistica estera. O se, invece, al pari di ogni membro dell’Eurozona, presenti punti di forza e punti di debolezza.

Una radiografia, quindi, che non ha solo un valore statistico, ma consente di individuare meglio le cose che è ancora necessario fare. Grazie ai punti di forza esistenti sarà, infatti, possibile intervenire per correggere quelle storture che sono sempre state tipiche di quel “legno storto” – la realtà – di cui parlava Emmanuel Kant.

Il primo dato che balza agli occhi è, ovviamente, il suo preoccupante debito pubblico in rapporto al Pil. Prima della pandemia, vale a dire nel 2019, aveva raggiunto un valore pari al 134,7%. Secondo solo alla Grecia e al Giappone. Dall’inizio del Terzo millennio l’aumento era stato di 25,7 punti, contro i 15 dell’Eurozona esclusa l’Italia. Ma in percentuale, a una crescita nostrana del 23,6%, quella europea era stata maggiore: pari al 24,8. Per cui il rapporto tra i due debiti, quello italiano e quello dell’eurozona senza l’Italia, che, nel 2000 era stato pari all’80,2%, nel 2019 era sceso al 78,4. Una tendenza sicuramente positiva in risposta alle allarmistiche congetture sul debito italiano. Se il rapporto debito pubblico/Pil aumenta in tutto il mondo, compresa ovviamente l’Eurozona, qualche riflessione aggiuntiva andrebbe fatta, invece di seguire la facile strada del rimbrotto.

Ma perché in Italia non si è riusciti a contenere in modo ancor più marcato il debito pubblico? Le cause sono state molteplici e vanno analizzate una per una. Un primo dato è quello della minor crescita. Il Pil in termini nominali, secondo Eurostat, è aumentato, nei venti anni che sono alle nostre spalle, in media dell’1,8% all’anno per l’Italia. Mentre nell’Eurozona, al netto del Bel Paese, del 2,9%. In parte a causa della minore crescita in termini reali e in parte a causa della minore inflazione. Si può calcolare che, se avessimo seguito il sentiero di crescita dell’Eurozona, lasciando invariati tutti gli altri parametri, oggi avremmo un rapporto debito pubblico/Pil più vicino al 100%.

Basta la sola crescita? Probabilmente no. La spesa pubblica italiana ha un tracciato simile a quello europeo. Al netto degli interessi, nel 2019, è stata pari al 41,8% del Pil contro il 41,6. Un niente di differenza, se non fosse per i maggiori interessi che, in quelle cifre, non sono considerati. In media, nell’arco dei vent’anni, il peso sul Pil del servizio sul debito è stato pari al 4,6% contro il 2,4% del complesso degli altri Paesi. Un fardello aggiuntivo di 2,2 punti di Pil che andava finanziato trovando risorse aggiuntive rispetto alla normale spesa di ogni anno.

Risorse che gli analisti di bilancio indicano sotto la voce di “avanzo primario”. Esso è stato, in media, pari all’1,6% del Pil, ben più alto di quello medio europeo, che si era fermato ad uno striminzito 0,1%. C’è forse qualcuno che può sottovalutare lo sforzo fatto per ottenerlo? Comunque sia: non è bastato. Ha coperto, in media, solo il 73% degli interessi che l’Italia paga ai suoi finanziatori, mentre per il restante 27% si è fatto ricorso al deficit. E, in effetti, quest’ultimo è stato di 0,6 punti maggiore di quello medio dell’Eurozona. Cifra non sconvolgente se si considera l’entità complessiva della media del deficit italiano: 2,98%, contro il 2,42 degli altri.

Si può aumentare l’avanzo primario, come da più parti si suggerisce? Si, ma a un’unica condizione: che non si abbiano effetti deflattivi sull’economia. Altrimenti, quello che si guadagna in termini di minor deficit di bilancio, lo si ripaga, e spesso con gli interessi, con una minore crescita dell’economia. Un trade-off negativo. L’argomento deve essere, quindi, maneggiato con cura. In teoria quello che si può dire è che non conviene aumentare le tasse. La pressione fiscale, in Italia, è, infatti, ben più alta di quella dell’Eurozona. Nel 2019 era pari al 42,4%, contro il 41,2. Se si aumentasse di un altro 0,6 si arriverebbe al 43%, con un immediato effetto di spiazzamento.

Nel confronto fiscale con gli altri Paesi dell’Eurozona, a parte il maggior carico che grava sulla società italiana, la principale differenza che balza agli occhi non è tanto l’eccesso di imposte dirette e indirette: rispettivamente 1,7 e 1,5 punti in più nel 2019, quanto il minor peso dei contributi sociali versati: meno 1,8 punti. A cosa si deve? Forse alle minori aliquote? Niente affatto: solo al più basso tasso di attività (lavoro regolare) di cui soffre l’Italia: appena il 65,7% della popolazione in età compresa tra i 15 ed i 64 anni, secondo le valutazioni della Commissione europea (alert mechanism 2020). Contro le percentuali francesi del 71,7 o tedesche del 79,2. Differenze che, riflettendosi anche sulle entrate pubbliche, fanno meglio comprendere le ragioni più profonde dell’eccesso del debito italiano.

Si possono ridurre le spese? Anche in questo caso, come abbiamo visto, i margini sono limitati. La spesa corrente, al netto degli interessi sul debito pubblico, non deborda rispetto alla media dell’Eurozona. Si tratta, allora, di vedere se sussistono delle anomalie nella sua composizione. E, in effetti, queste esistono e si concentrano, quasi esclusivamente sulla spesa sociale. Pari al 20,1% del Pil, nel 2019, essa è risultata di ben 4,1 punti superiore alla media dell’Eurozona. Con una percentuale in più di circa il 25%. Che risulterebbe ancora maggiore se si tenesse conto anche delle cosiddette tax expenditures: le agevolazioni fiscali che garantiscono trattamenti privilegiati solo ad una parte di contribuenti. Esse sono costituite da 533 voci e comportano uno sgravio pari, ogni anno, ad oltre 62,5 miliardi: 3,1 punti di Pil.

Le cifre indicate lasciano intravedere la superficie di una giungla finora poco esplorata. A partire dalla necessaria distinzione tra previdenza e assistenza. Troppo spesso, specie in passato, i confini tra assistenzialismo e giusta redistribuzione del reddito si sono dimostrati inesistenti, nascondendo sprechi, furbizie, parassitismi ai quali è necessario mettere mano per dimostrare quella serietà e quel rigore che, in passato, sono mancati.

C’è un punto di forza della società italiana che le analisi della Commissione europea hanno più volte messo in evidenza. Gli scambi commerciali con l’estero sono eccellenti. Dal 2012 esiste un avanzo crescente delle partite correnti della bilancia dei pagamenti che nel 2020, nonostante la pandemia, ha raggiunto, secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, 58,6 miliardi di euro e una posizione patrimoniale netta di altri 30,4.

Dall’analisi di questi dati non emerge una situazione anomala rispetto alla media europea. Certo, esiste un gap di performance macroeconomiche tra l’Italia e i virtuosi paesi del Nord misurato in termini di tasso di crescita del Pil e di produttività dei fattori della produzione. Gap che i politici e gli economisti hanno, nel corso degli ultimi anni, cercato di ridurre proponendo diverse ricette per far aumentare entrambe le variabili e far convergere l’Italia verso la media europea. Finora, tuttavia, i tentativi sono falliti.

Che fare allora? Per trovare una risposta, sarebbe bene tornare ai lavori dell’economista americano Paul Romer, premio Nobel per l’economia, che negli anni Novanta del secolo scorso elaborò dei modelli di crescita “endogena”, spiegando come l’accumulazione della conoscenza sia il fattore principale che sta alla base della crescita economica mondiale. L’intuizione di Romer fu quella di suddividere i fattori dell’economia in “rivali” (ovvero quelli che se usati da un individuo non possono essere usati da un altro, come tutti i beni e servizi che tradizionalmente usiamo) e “non rivali”, ovvero le idee e le scoperte, i cui benefici ricadono su tutti e non è possibile escludere alcuni individui dalla loro fruizione. Dal momento che il costo marginale della fornitura di una nuova scoperta o di una nuova idea è pari a zero e che il guadagno derivante dal loro sfruttamento è certamente positivo, ecco che, a differenza di quanto avviene per i beni tradizionali, si creano delle economie di scala crescenti che producono una crescita economica di lungo periodo. Un’idea compatibile, questa di Romer, con il principio del “sapere diffuso” del filosofo ed economista austriaco Friederich A. von Hayek e della famosa “distruzione creatrice” di Arthur Schumpeter, che è alla base della teoria della concorrenza come driver principale dello sviluppo dell’economia moderna.

Ecco, le conclusioni di Romer dovrebbero dare ottimismo al nostro Paese, perché se c’è qualcosa che proprio non manca all’Italia è la creatività, caratteristica che ci viene pacificamente riconosciuta all’estero. Ma affinché questo accada, occorre che queste idee vengano messe in condizione di essere diffuse e utilizzate, ovvero che esista un ecosistema (business environment) fatto di una pubblica amministrazione moderna ed efficiente, un sistema di regole semplici, chiare e trasparenti, condizioni concorrenziali di accesso al mercato, investimenti significativi, specie in ricerca, innovazione e infrastrutture, accompagnati dalle riforme necessarie per rimuovere le persistenti barriere alla loro programmazione. L’agevolare tutto questo dovrebbe essere il compito, e la sfida dello Stato, che dovrebbe prefissarsi l’obiettivo di mettere il mercato privato delle idee nella condizione di funzionare efficacemente. Uno dei tanti obiettivi che il PNRR appena approvato si prefigge è proprio questo: liberare l’Italia da tutti i vincoli che impediscono alle idee di creare sviluppo.

Le condizioni congiunturali favorevoli, con l’economia italiana in rimbalzo verso (se non oltre) il 5% di crescita del PIL stimata per il 2021, fanno ben sperare. Un simile contesto di congiuntura favorevole è terreno fertile per le riforme che il governo Draghi ha già approvato – semplificazioni, governance, reclutamento del personale pubblico per i progetti Pnrr – e per quelle che si è impegnato a varare. Il rispetto del cronoprogramma negoziato con la Commissione europea ha già sorpreso positivamente. La capacità di mantenere gli impegni apre non solo la cassaforte dei fondi, ma soprattutto la cassaforte della credibilità. E se l’Italia parte con il piede giusto e con la giusta reputazione, la combinazione di riforme e investimenti pubblici europei del Next Generation Eu avrà l’effetto concreto di attrarre ulteriori investimenti privati aggiuntivi. Niente, per attirare gli investimenti, ha più successo del successo. Insomma, un circolo virtuoso che, grazie all’autorevolezza e alla credibilità del presidente Draghi, vero asset intangibile del nostro Paese, sta già cambiando l’Italia. Sarà un cambiamento profondo e strutturale. Un’eredità preziosa. Un’anomalia, stavolta in positivo.

(Huffpost)

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