19 Marzo, 2024
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I miei quattro anni di Palermo: intervista al generale Fabio Tommasini, oggi assessore del Comune di Peccioli

Pubblichiamo l’intervista – del 2 Aprile – al Generale dei Carabinieri Fabio Tommasini, oggi cittadino e assessore del Comune di Peccioli, che ha dedicato la sua vita alla lotta contro la mafia.

Premetto che non è mio costume raccontare la mia storia, lo faccio solo poche volte quando mi vengono formulate domande specifiche. Non sempre dico la verità perché so benissimo che quello che espongo può non essere creduto per la durezza dei fatti e delle circostanze che ho vissuto in prima persona.

Rammento che in quei quattro anni si sono verificati più di mille omicidi di Mafia.

Nel settembre 1981, dopo aver frequentato la scuola ufficiali a Roma, sono stato trasferito a Palermo come vice comandante della sezione antimafia col grado di Sottotenente. Come ogni ragazzo, non ero assolutamente preparato emotivamente a ciò che avrei dovuto assistere in quanto la mafia appare alla molteplicità delle persone una cosa distante. Mi sono trovato lì, pochi giorni dopo l’uccisione del maresciallo dei carabinieri Vito Ievolella, certo non per mia scelta, ma per un comando dall’alto. In pochissimo tempo mi sono reso conto che la mafia non era “Il giorno della civetta” di Sciascia, ma una cruda realtà.

La mia giornata iniziava ogni mattina alle 7.59, sempre un minuto prima del mio comandante che era il Cap. Angiolo Pellegrini e terminava quando ormai la maggior parte dei cittadini aveva ultimato la cena. Pensavo ai miei amici che si trovavano a Roma, a mille chilometri da me e che potevano andare a ballare e divertirsi, perché giovani si è oggi, ma lo si era anche allora. Il dicembre successivo chiesi di potermi recare a Roma perché indossavo ancora i vestiti estivi che avevo portato con me alla partenza. Da giovane ufficiale riuscii ad ottenere un permesso di sole 36 ore ogni 40 giorni, di contro dovevo lavorare sette giorni su sette.

All’epoca non esistevano i computer quindi tutto doveva essere trascritto su carta. Le pareti dei nostri uffici non avevano quadri ma organigrammi di famiglie mafiose che venivano aggiornate ogni qual volta si veniva a verificare un fatto importante (uccisioni, arresti, nascite, matrimoni ecc ecc).

A seguito di un omicidio si procedeva come di routine a predisporre le perquisizioni domiciliari che avvenivano alle 3 o alle 4 di mattina. Al termine delle operazioni si tornava in ufficio e si proseguiva la giornata lavorativa.

Tante persone mi domandano – Il sonno? Ma tu quanto dormivi? – Il sonno l’ho perso. Dormo poco ormai, con poche ore me la cavo. Per quaranta anni mi sono abituato a riposare dieci minuti su una sedia, per poi riprendere a lavorare.

Dopo pochi giorni di lavoro a Palermo, mi capitò il primo morto ammazzato; giunto sul posto il mio comandante e il medico legale mi dissero: – Lo identifichi. Non avevo mai visto fino ad allora un morto ammazzato, né tanto meno lo avevo toccato. L’identificazione consisteva nel frugare il corpo per prendergli i documenti in modo da risalire alla sua identità. Lì cominciai a capire che la mafia non era un gioco.

Era esplosa la guerra tra la vecchia e la nuova mafia e ci siamo trovati a fronteggiare questo reale conflitto con un pulmino 850, un 127 e tanta buona volontà. Non c’erano molte macchine da scrivere, né i fogli, né tanto meno le buste di carta: un appuntato ogni mattina apriva le buste da lettera che erano giunte con la corrispondenza col il vapore per poi rigirarle e riutilizzarle. Un carabiniere abruzzese era specializzato a rilevare tutti i dati che necessitavano all‘inchiesta presso l’anagrafe riportandoli tutti su carta (le fotocopiatrici erano merce rara). Quando tornava in ufficio con una facilità impressionante faceva tutti i collegamenti di parentela incrociando, a memoria, tutti gli stati di famiglia delle persone mafiose oggetto di indagine.

Il nostro comandante Cap. Angiolo Pellegrini era un vero “sbirro”, seguiva tutti gli avvenimenti e, come un direttore di orchestra, dava a ogni dipendente un compito specifico per acquisire le prove per la stesura dei “Rapporti giudiziari”, ora “Informativa di reato”. Aveva stabilito delle regole ferree. La più importante quella di non riferire mai a nessuno quello che si stava facendo e di relazionare a Lui tutto quello che si vedeva o si ascoltava. Con il suo operato aveva acquisito la stima dei magistrati di Palermo e in particolare di Falcone e Borsellino. Con il rapporto giudiziario appellato “GRECO MICHELE +161” si riuscì a dimostrare che i fatti delittuosi facevano parte di un contesto preordinato e schematico che si inquadrava in “COSA NOSTRA” e non si trattava di fatti singoli. Delineammo la cupola, i capi, la struttura gerarchica della mafia. Quel rapporto fu la pietra miliare di tutte le indagini che poi confluirono nel maxi processo. Se andate a visitare a Palermo il museo di Falcone e Borsellino potete leggere in calce a questo rapporto anche la mia firma. Giova precisare che tutte le indagini erano state svolte congiuntamente con un pool della Polizia diretto dal Dott. Cassarà.

Rapporto giudiziario “Greco Michele + 161”

Dal 1981 al 1985, in quattro anni di Palermo, ho visto anche cinque o sei morti ammazzati al giorno, che, vi assicuro, sono veramente tanti. La mafia sfruttando i canali utilizzati per il traffico delle sigarette aveva iniziato ad importare ingenti quantità di droga. Mi rammento di quando abbiamo trovato una raffineria di eroina Verso Ficarazzi (PA). Al nostro arrivo gli alambicchi fumavano, il tecnico era riuscito a scappare, ma successivamente fu arrestato. Alla scoperta della raffineria si arrivò incrociando i dati del consumo energetico e di quello delle acque che erano risultati sproporzionati per una casa semi-diroccata. Voglio ricordarvi che ancora non esistevano i pc e tutto doveva essere fatto manualmente con tanta pazienza e intuizione.

Oltre ad acquisire le notizie utili al prosieguo delle indagini, mi occupavo anche della ricerca dei catturandi unitamente a una decina di miei collaboratori.

La ricerca dei mafiosi che si erano resi irreperibili si svolgeva nell’analizzare, inizialmente, tutto il nucleo familiare per individuare la persona che poteva tenere i contatti con il latitante, di solito donne che, successivamente, venivano pedinate e osservate. Questa attività si svolgeva prevalentemente in orari notturni e in modo particolare nelle feste comandate. Nell’occasione, al rientro, si redigeva una relazione di servizio dove venivano annotati tutti i rapporti che intratteneva la persona da noi seguita. Questo era utile per storicizzare gli incontri avvenuti e le circostanze che poi potevano essere utili per le nostre indagini.

Una domenica ci recammo a Ciaculli – Fondo Favarella, una località ad alto indice mafioso di proprietà di Michele Greco, detto il “papa”, perché si doveva tenere un summit. Il soprannome indicava che era una persona potentissima molto vicina a tutti gli ambienti politici e amministrativi. Mi trovavo con la mia squadra, composta da una decina di miei collaboratori. Scavalcai per primo il muro ma non fui seguito dal personale. Quella era stata una mia personale sconfitta, capii in un attimo che non sempre si può comandare applicando i regolamenti, specialmente dove si rischia la vita. Da quel momento adottai un motto “conquista il loro cuore avrai anche la loro mente”. Iniziai a farmi carico dei loro problemi ascoltandoli e cercando di trovare sempre una soluzione, mantenendo un rispetto dei ruoli gerarchici.

Sei, sette mesi dopo avevano rintracciato un latitante mafioso in una palazzina di Brancaccio. Il ricercato scappò per le scale e andò sui tetti, io ero in testa alla mia squadra e tallonavo il fuggitivo, partirono alcuni colpi di arma da fuoco, in quel momento un mio uomo, appoggiandomi la mano sul petto mi disse: – Tenente, lei resti dietro, andiamo avanti noi, la proteggiamo. Si trattava degli stessi uomini che non mi avevano seguito quando avevo saltato il muro in Contrada Favarella, quelli che mi avevano lasciato da solo. Ecco, quegli uomini adesso stavano rischiando la loro vita per proteggermi e per me quella fu una vittoria.

Nel giugno-luglio 1984 il mio capitano Pellegrini partecipò alla cattura del latitante Tommaso Buscetta in Brasile e io comandavo interinalmente la sezione.  Avevo presentato domanda di matrimonio per il 7 luglio 1984.  Visto che Pellegrini si trovava in America Latina io non potevo spostarmi da Palermo per andare a Roma a sposarmi. Premetto non conoscevo la chiesa, il ristorante e tutto quello che era collegato al matrimonio. (Mi sembrava di vivere in un racconto di guerra dove i matrimoni avvenivano per corrispondenza). La mia fidanzata non vedendomi arrivare, mi minacciò di andare vestita da sposa al comando generale. La mia richiesta di licenza matrimoniale era stata ignorata, ero inchiodato in Sicilia aspettando che il Comandante facesse rientro. Riuscii a presentarmi al mio matrimonio con solo sei ore di anticipo.

Una volta siamo andati ad arrestare un latitante a Mondello. Trovammo Il mafioso con la moglie e figli. Dopo le formalità di rito, l’uomo doveva essere tradotto in carcere: in quel momento l’arrestato mi chiese: – Tenente, una cortesia, non mi metta le manette davanti ai miei figli. – Cosa? – Forse non avevo ben capito. – Tenente, non voglio che i miei figli vedano quando mi ammanetta, ripeté, gli do la mia parola che non scappo. – Va bene, risposi. E fino alla macchina non gli misi le manette. Arrivammo in auto e lo ammanettai. Era stato corretto, i mafiosi di un tempo sapevano mantenere la parola data, non erano dei quaquaraquà come quelli di oggi. Lo rincontrai tempo dopo al carcere dell’Ucciardone, quando era ormai detenuto e mi ringraziò.

Il Commissario della Squadra Mobile Peppe Montana, svolgeva il mio stesso lavoro per la sua amministrazione. Tra noi, oltre a esserci un bel rispetto lavorativo, intercorreva un’amicizia. Il 28 luglio 1985, giorno della sua uccisione, avvenuta al Porticello di Santa Flavia, dovevo trovarmi con lui per un giro in barca, ero stato invitato a passare il pomeriggio insieme come la settimana precedente. Capite quando vi dico che in quel giorno, in quel preciso momento, dovevo essere anch’io con lui? La vita è fatta di fortuna e sfortuna, non c’è niente da fare. E proprio la fortuna ha voluto che quella volta fossi stato mandato a Partinico per fare dei pedinamenti. La ricezione era pessima, tutti mi stavano cercando con insistenza, fui io a rimettermi in contatto telefonico con la centrale e seppi della morte del mio amico Peppe. Non vi dico come mi sono sentito, non era la prima volta che vedevo un mio amico ucciso a Palermo.

Il 13 giugno 1983 dopo un rapporto Ufficiali carabinieri tenutosi a Palermo, salutai il capitano comandante della compagnia di Monreale Mario D’Aleo anche lui romano, che faceva rientro presso la sua abitazione. Poco dopo arrivò una telefonata in centrale operativa che segnalava l’uccisione di un ufficiale dei carabinieri e alcuni uomini. Presi la macchina di servizio arrivai sul posto e vidi Mario e due militari colpiti a morte dentro la macchina di servizio.

Con l’omicidio di Ninni Cassarà, il 6 agosto 1985, si chiuse la mia esperienza a Palermo, il giorno successivo fui trasferito d’urgenza ad un altro reparto la compagnia di Sora (FR). Dopo circa tre anni cambiai incarico andando a comandare la compagnia di Salerno.

Qui, nell’estate del 1992, pochi giorni prima della sua uccisone, incontrai Paolo Borsellino, ci abbracciammo e piangemmo senza proferire parola. Solo i nostri sguardi parlavano rammentando momenti importanti. L’uccisione di Falcone aveva spento gli animi di molti italiani e modo particolare quello di Paolo.  Pochi giorni dopo, Il 19 luglio, cadde anche Borsellino.

Nel 1992 ho vinto il concorso per la Direzione investigativa antimafia dopo sedici anni di permanenza. Avendo raggiunto il grado di colonnello, sono stato trasferito come Direttore della Divisione Collaboratori di Giustizia. Sicuramente incarico di prestigio molto impegnativo, specie per me che dovevo tutelare anche i mafiosi che avevano ucciso i miei amici.

Io non parlo mai di cosa “ho fatto”, né mi sono mai vantato per le mie azioni, perché ho solo compiuto il mio dovere. Ho giurato fedeltà alle istituzioni e mantenuto fede al mio giuramento, niente di più. Cammino tra voi e, spesso, a ragione, ignorate la mia vita.

Quello che però voglio dirvi è che la mafia l’ho vista da vicino e non è un film, perché ai film manca una dimensione fondamentale: l’odore del sangue…

Comune di Peccioii

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