28 Marzo, 2024
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GIUSEPPE MOCCI E IL SUO ALBERO GENEALOGICO

Ha scavato ed è risalito. Si è immerso e ha individuato. Ha esplorato e si è orientato. Non nel buio della terra o nel profondo dei mari: ma su un albero genealogico. Quello della sua famiglia. I Mocci. E addirittura di quel Moccius citato in alcune fonti latine.

Giuseppe Mocci è, a suo modo, un cacciatore del tempo. Inabissandosi in archivi ma anche avventurandosi in scantinati e soffitte, spolverando faldoni e spulciando documenti, riesumando atti e recuperando fotografie, ha illuminato la storia della sua famiglia, che è un po’, forse molto, anche la storia di Cesano. Genitori e nonni, più su, bisnonni e trisnonni, più su, fino ad arrivare a quel Cesare Stefano Mocci avvocato settecentesco per lo Stato Pontificio, dunque a quel trasferimento da Palestrina a Cesano, che segna l’inizio del suo ramo e di questa parte della storia.

“Ho cominciato quasi per scherzo – racconta Giuseppe Mocci, 44 anni, geometra e studioso di architettura, vicepresidente della Commissione cultura del Municipio XV –, poi la ricerca da storica è diventata scientifica e così ricca di eventi e protagonisti non si è più fermata. I Mocci di Cesano possono vantare quello stretto legame familiare con i Mocci di Palestrina, ma anche con i Mocci nobile famiglia napoletana e con altri Mocci, dal Piemonte alla Sardegna, dall’Umbria alle Marche”. Ed è così che i Mocci laziali, da amministratori nei feudi dei Colonna e dei Barberini, si trasformarono in possidenti terrieri e imprenditori agricoli, fino a quell’Alessandro Mocci che, nel 1904, partecipò alla fondazione dell’Università Agraria di Cesano di Roma e nel 1910 ne fu nominato presidente. Oggi l’Università Agraria, con la sua valenza sociale ed economica, gestisce 70 ettari di terreno a ridosso del centro storico, insieme con un frantoio per l’olio, una palazzina nel Borgo sede dell’Ente, un locale chiamato “il Granaio”, l’impianto sportivo di calcio in via della Stazionre di Cesano e il grande casale di via della Fontana Secca. Tante fotografie ribadiscono il suo ruolo nella comunità locale, distribuendo il lavoro, specializzando le operazioni, scandendo le stagioni.

Cesano nacque etrusca (in antagonismo a Veio, e c’era anche la vicina Campiscari, con necropoli), fu dotata di “mansiones” in età consolare (stazioni di posta con comando di polizia, camere e taverne, come quella nella Valle del Baccano), fu quasi attraversata dalla Cassia e beneficiata dall’acquedotto (l’Aqua Claudia), probabilmente si elevò alla Villa Rustica imperiale di Cesare Augusto, e quando passò dall’Impero alla Chiesa, divenne area agricola nonché borgo fortificato lungo la Via Francigena. “La vocazione agricola si è trasmessa nei secoli – spiega Mocci -, base dell’economia locale, dai vigneti agli uliveti, fino alla produzione di grano. Nell’Archivio capitolino ho trovato documenti relati alla vendita del vino – a barili – a Roma, un vino non particolarmente nobile, ma da osteria, da taverna, da tavola, da tutti i giorni. E ho trovato anche altri documenti in cui i commercianti si lamentavano per le condizioni della strada, dissestata, piena di buche, che ostacolava il trasporto delle botti sui carri”.

C’è da capirlo, Mocci, c’è da immaginarlo nel suo viaggio attraverso i secoli della sua famiglia, e così anche della sua Cesano. Mentre salta dallo stemma (“La testa di un leone rampante e i raggi del sole”) alle collezioni (“In un testamento esiste l’elenco minuzioso di tutte le proprietà, c’era anche un’opera del Caravaggio”), mentre emigra dalla storia del palazzetto (“Acquistato dal bisnonno, è quello che ospita il bar del Borgo di Cesano: in un soffitto cassonato, una specie di solido soppalco, si ospitavano i lavoratori extraterritoriali stagionali, chiamati a svolgere le opere più pesanti, altrimenti destinati a dormire all’addiaccio”) alle battute di caccia (“Era una zona privilegiata, e certe fotografie ritraggono i protagonisti, fieri mentre mostrano la selvaggina, dopo le ore trascorse puntando e sparando”), mentre coglie dall’albero genealogico una Diana “vicepreside in una scuola di Monte Mario a Roma” a un Fortunato “vissuto fino all’età di 98 anni”, mentre dimostra “la beneficenza per la Chiesa e le opere ecclesiastiche” e “i legami con le famiglie romane Chigi e Sili”, mentre assiste al “cambiamento sociale e urbanistico della nostra cittadina, dei suoi riti e delle sue tradizioni, come l’accensione della candella per il lancio del bando con cui si prendevano in gestione, grazie a un sorteggio, le quote dei terreni agricoli”. Soprattutto c’è, nelle fotografie sistemate negli album di Mocci, una Cesano comunitaria, “dove i punti di riferimento erano il medico, il parroco e il capo dei Carabinieri, dove i sergenti dell’Esercito avevano già un’autorità riconosciuta perché sapevano leggere e scrivere, dove i più agiati – invidiatissimi – si recavano a Roma su calessi tirati da cavalli o asini e i più poveri, con o senza carretti, procedevano sempre a piedi”. Sgambate lunghe una ventina di chilometri.

Nelle ricerche documentali e fotografiche di Giuseppe Mocci c’è ovviamente anche il ventennio fascista: “La costruzione della casa del Fascio, in stile razionalista, fu continuamente rimandata e infine realizzata all’inizio degli anni Quaranta. Ma a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale non entrò mai in funzione. Poi, modificata, divenne la sede della caserma dei Carabinieri”. E ancora: “Ho ritrovato la ‘querelle’ fra il mio bisnonno e – per sonalmente – Mussolini al tempo in cui certe aree furono espropriate senza alcun rimborso per costruire la strada comunale. Il mio antenato non ne voleva sapere, percorse tutte le vie legali finché si rivolse direttamente al Duce intimandogli il pagamento per non incorrere in una grave ingiustizia. E dopo mille tentativi, l’esproprio fu risarcito”

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