29 Marzo, 2024
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Adattamento ai cambiamenti climatici: a che punto siamo? Intervista a Sergio Castellari

L’Italia è al passo coi tempi sul piano dell’adattamento ai cambiamenti climatici? Lo abbiamo chiesto a Sergio Castellari, che ci ha riportato lo stato dell’arte, anche al livello europeo, in ambito di adattamento climatico, dalle importanti soluzioni “basate sulla natura” ai traguardi ancora da raggiungere.

L’Italia è tra i paesi europei più sottoposti al rischio climatico, trovandosi nel bacino del Mediterraneo; tuttavia, nonostante i progressi fatti negli ultimi anni, non è ancora al passo nel processo di adattamento ai cambiamenti climatici. Per capire lo stato dell’arte a livello scientifico e il perimetro degli ambiti di intervento principali, abbiamo intervistato Sergio Castellari, climatologo all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), coordinatore e coautore, tra le altre cose, di vari rapporti per l’Agenzia Europea per l’Ambiente e il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC).

Adattamento climatico: intervista a Sergio Castellari

Cos’è l’adattamento ai cambiamenti climatici?

Per affrontare il tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici è necessario innanzitutto affrontare il tema generale del “rischio climatico”, che l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) definisce  come l’interazione tra la vulnerabilità (predisposizione a subire gli impatti climatici), l’esposizione del territorio agli impatti climatici e i pericoli stessi dei cambiamenti climatici. L’adattamento è quindi prevenire e ridurre il rischio climatico in una maniera efficace socialmente ed economicamente; ed è uno dei due modi per combattere il cambiamento climatico, l’altro è la mitigazione, in altre parole l’eliminazione delle cause che lo provocano.

Qual è il contesto europeo di riferimento?

L’adattamento si sviluppa mediante delle strategie o piani d’azione che possono essere nazionali, europei, regionali e locali. L’Europa si è dotata da anni di un contesto politico nel campo dell’adattamento: l’Agenzia Europea per l’Ambiente dal 2012 ha attivato la piattaforma Climate-ADAPT, sempre mantenuta aggiornata, dove gli utenti, tutti i portatori di interesse e i decisori politici europei possono trovare informazioni scientifiche sull’adattamento, casi studio e tutto il supporto su come lavorare alle strategie e ai piani di adattamento. A livello di policy, l’Europa nel 2013 ha lanciato la prima la strategia europea di adattamento ai cambiamenti climatici che aveva tre obiettivi principali: promuovere l’azione degli Stati membri, spingere i paesi a raccogliere dati e aumentare le conoscenze disponibili, anche attraverso Climate-ADAPT, e integrare le misure di adattamento alle varie politiche nazionali e locali. Questa strategia ha fatto in modo che tutti i paesi avessero una strategia o un piano di adattamento.

Qual è la differenza tra strategia e piano?

Una strategia significa fornire una visione a corto, medio e lungo termine – come abbiamo fatto con la Strategia Nazionale per l’Adattamento ai Cambiamenti Climatici – riportare lo stato corrente delle conoscenze disponibili riguardo agli impatti, vulnerabilità e adattamento ai cambiamenti climatici, individuare i settori delineando le azioni principali e trasversali e infine definire gli attori principali. Un piano d’azione significa attuare almeno parte di questa strategia tramite la costruzione di un’efficace governance, l’allocazione di fondi e l’applicazione di un sistema di monitoraggio e valutazione delle azioni intraprese. L’Unione Europea ha aggiornato la strategia del 2013 tramite varie consultazioni e una revisione fatta a livello europeo nel 2018 e, nel febbraio di quest’anno, ha lanciato la nuova strategia europea per l’adattamento che, tra le altre cose, spinge i paesi ad attuare le proprie, anche esortando il maggior uso delle soluzioni verdi, cioè le cosiddette nature-based solutions. La strategia europea attuale manda anche tre messaggi molto chiari: l’adattamento deve diventare intelligente (usa la parola smart), deve essere sistemico, cioè integrato in tutti i settori della nostra società, e deve essere veloce.

Oltre a questi capisaldi, l’adattamento è presente anche in altre strategie europee?

La strategia Europea della biodiversità 2030 lanciata l’anno scorso, per esempio, ha tanti punti che si collegano al tema dell’adattamento e alle nature-based solutions, e al suo interno ha un piano di nature restoration con obiettivi che verranno elaborati per diventare legalmente vincolanti. Questa, la strategia From farm to fork per un sistema alimentare sostenibile, la nuova strategia forestale che uscirà a breve e, appunto, la strategia di adattamento fanno parte insieme della roadmap definita dall’European Green Deal, in cui l’adattamento ha un ruolo fondamentale.

Focalizziamoci sull’Italia: innanzitutto quanto è esposta ai rischi del cambiamento climatico?

L’Italia si trova nel Mediterraneo, che viene definito dai climatologi una delle aree hot-spot dei cambiamenti climatici. Quindi la nostra penisola è esposta a un rischio climatico elevato, tra cui una maggiore frequenza e/o intensità degli eventi estremi, come inondazioni, ondate di calore e siccità. Inoltre, in alcune aree costiere italiane l’innalzamento del livello del mare, assieme al fenomeno della subsidenza, causa erosione costiera e anche la possibile salinizzazione delle risorse idriche con tutti gli impatti ambientali, sociali ed economici conseguenti.

Quali passaggi l’Italia ha compiuto per l’adattamento climatico?

L’Italia ha iniziato un percorso nazionale di adattamento nel 2012. Io ero il coordinatore e il principale autore dei rapporti che hanno poi costruito, in modo partecipato, la Strategia Nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici entrata in vigore nel giugno 2015. In particolare, con un centinaio di scienziati abbiamo prodotto tre rapporti, uno tecnico-scientifico sullo stato dell’arte, uno tecnico-giuridico con un’analisi della Strategia Europea di Adattamento, delle strategie nazionali già adottate in Europa e dell’acquis communautaire e sua attuazione in Italia, infine un documento strategico.

Avevamo definito 18 settori e alcuni casi speciali (Area alpina e appenninica, Distretto idrografico del fiume Po) dove si evidenziavano le azioni possibili di adattamento a tre livelli temporali: al 2020, al 2030 e al 2050. La strategia italiana è stata consegnata nel 2014 all’allora Ministero dell’Ambiente, approvata dalla Conferenza unificata stato-regioni, e adottata nel 2015. Per il 2020 avevamo evidenziato le azioni dette no regret, tra cui le azioni che permettono di conseguire benefici elevati e costi relativamente bassi indipendentemente dall’entità dei cambiamenti climatici, come l’incremento del verde urbano, l’arresto del consumo di suolo e il divieto di costruire nelle zone a rischio idrogeologico. La strategia suggeriva inoltre l’attuazione di almeno una parte di essa, con alcune azioni prioritarie, tramite appunto un piano nazionale per l’adattamento.

Il nostro Piano Nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici è in via di approvazione dal giugno 2018. Cosa si deve fare ancora?

Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC) è stato elaborato con un progetto finanziato dal Ministero dell’Ambiente e coordinato dal CMCC. È stato sottoposto a revisione e dal 2018 è rimasto in attesa di approvazione della Valutazione Ambientale Strategica. Il piano non include attualmente una pianificazione finanziaria e una possibile allocazione dei fondi, e questo, secondo quanto detto prima, non lo rende un vero e proprio piano d’azione. Per esempio, un caso importante riguarda il bacino del Po, individuato nella Strategia come una delle aree di grande priorità per attuare azioni di adattamento. Nella fattispecie, è una buona notizia che un finanziamento per il bacino del Po è stato inserito nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (vedi Missione 2, Componente 4, Investimento 3.3: Rinaturazione dell’area Po, con 0,36 miliardi, ndr).

Al Piano di adattamento servono poi due livelli di governance efficiente, uno orizzontale (territoriale e regionale) e uno verticale (interistituzionale), insieme con uno schema efficace di monitoraggio e valutazione, se possibile effettuato da parte di un organismo indipendente. Inoltre, è molto importante che i vari processi decisionali siano partecipativi a tutti i livelli, per far aumentare la consapevolezza sia dei decisori politici e sia dei cittadini.

Cosa si intende con soluzioni basate sulla natura (nature-based solutions) per l’adattamento ai cambiamenti climatici?

Con le nature-based solutions si preserva e si ripristina la natura, cercando di usarla in maniera sostenibile per ridurre il rischio degli impatti dei cambiamenti climatici, riducendo quindi anche la perdita di biodiversità e il degrado degli ecosistemi. Nel rapporto del 2021 dell’EEA che ho co-curato, Nature-based solutions in Europe: Policy, knowledge and practice for climate change adaptation and disaster risk reduction, affrontiamo l’argomento proprio dal punto di vista dell’adattamento, mostrando come le nature-based solutions siano multifunzionali. Infatti, agendo sull’adattamento, e quindi sull’aumento in resilienza, si ottengono benefici multipli anche in altri campi d’azione: preservazione della natura, mitigazione dei cambiamenti climatici, miglioramento della salute e del benessere umani, ma anche benefici in settori socioeconomici importanti come il turismo, l’energia e i trasporti, in aree urbane e costiere. In questo senso l’abbiamo definito un “umbrella concept”. Nel rapporto abbiamo analizzato poi 97 casi studio in tutta Europa, selezionati dalle piattaforme europee, e selezionato 11 buoni esempi. Un esempio su tutti sono i classici tetti verdi, come avviene ad Amburgo in Germania. Questa città ha infatti elaborato un programma per i tetti verdi che combina incentivi finanziari per installazioni volontarie con la regolamentazione per l’installazione obbligatoria di tetti verdi nei nuovi piani locali.

A livello italiano?

A livello italiano abbiamo citato a esempio la città di Bologna che ha sviluppato uno strumento con cui le imprese locali possono ridurre la loro impronta di carbonio pagando il rimboschimento locale e, allo stesso tempo, generare benefici ambientali e sociali per la comunità. Oppure il caso costiero di Ugento in Puglia, dove si è usata la Posidonia spiaggiata per ricostruire le dune naturali che facevano parte del contesto ecosistemico di quella zona e che chiaramente frenano l’erosione costiera. Questo progetto permette di ridurre il ripascimento delle spiagge, e cioè una sorta di adattamento a perdere, che va ripetuto frequentemente. Costruendo invece le dune usando la Posidonia spiaggiata, si è visto quanto questo sistema sia efficiente e quanto il rapporto costi-benefici sia ottimale per poter arrivare a un obiettivo di resilienza usando la natura e ricostruendo quindi la costa riducendo il rischio dell’erosione costiera. Questo modello è per altro facilmente applicabile anche altrove.

Cosa resta da fare dal punto di vista dei finanziamenti?

In Europa per le nature-based solutions esiste un progetto pilota, il Natural Capital Financial Facility, che accetta proposte fino alla fine del 2021, e verrà molto probabilmente prorogato. Viene gestito dalla Commissione Europea e dalla Banca Europea per gli Investimenti. In generale, si è visto che anche se il costo iniziale delle azioni con nature-based solutions può essere in alcuni casi molto elevato, successivamente i benefici economici ripagano molto bene, durano di più e sono anche facili da aggiustare e da aggiornare se gli impatti climatici peggiorano. Il concetto della flessibilità è proprio uno degli elementi fondamentali dell’adattamento, permettendo così di ragionare a lungo termine. L’Italia dovrebbe a mio parere cercare di fare tesoro di questi messaggi e, valorizzando la comunità scientifica e tecnica, pianificare e finanziare azioni di adattamento intelligente, sistemico e veloce come suggerito dalla nuova Strategia Europea di Adattamento.

(Jacopo Mengarelli, Scienza in rete)

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