19 Aprile, 2024
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Intervista all’avvocato Giovanni Sicari di Gis, il gruppo che intende investire un miliardo di euro in provincia di Viterbo per il fotovoltaico

“Penso che questa soprintendenza abbia un pregiudizio nei nostri riguardi. Lo deduco dalla mancanza di disponibilità a ragionare su prescrizioni che rendano fattibili i progetti per gli impianti fotovoltaici nella Tuscia”.

A parlare è Giovanni Sicari, rappresentante legale del Gruppo impianti solari (Gis) che punta ad investire un miliardo di euro per la realizzazione di trenta impianti fotovoltaici di media e grande dimensione nella provincia di Viterbo. Da Tuscania a Montalto, su terreni agricoli. Un investimento che però, nel corso di questi anni, ha trovato l’opposizione della soprintendenza, ministero per i beni culturali (Mibact), che ha più volte fatto ricorso contro i progetti per la realizzazione degli impianti.

“La soprintendenza ha però perso tutti i ricorsi – precisa Sicari -. L’ultimo proprio in queste ultime settimane. Su Pian della Ginestra a Tuscania”.

Per Sicari, la soprintendenza avrebbe un pregiudizio nei confronti della realizzazione degli impianti fotovoltaici. “Lo deduco anche dal fatto – prosegue l’avvocato di Gis – che tutti i progetti vengono bocciati indiscriminatamente dalla soprintendenza e poi tutte le sentenze dei tribunali dicono che l’opposizione da parte di quest’ultima è infondata. Lo deduco da queste cose, ma mi posso anche sbagliare”.

Sto puntato anche nei confronti delle associazioni ambientaliste. “Ci sono alcune associazioni – commenta Sicari – che dicono di essere ambientaliste. In tal caso ci siamo spesso trovati di fronte a un’ignoranza dal punto di vista scientifico e delle leggi. Però l’ignoranza può essere spiegata dal fatto che il soggetto sia in buona fede e non ha avuto modo di informarsi. Anche se oggi informarsi è facile”.

Accanto a Sicari, nell’ufficio di Montalto di Castro di una delle società legate a Gis, c’è anche Raffaello Giacchetti, Ceo di Cfr srl.

Avvocato Sicari, quanti sono i progetti del Gis sul territorio della Tuscia?
“Tuscania, con Pian di Vico, sono circa 260 ettari. Poi c’è Montalto di Castro con 110 ettari. Ci sono anche Bomarzo, Vitorchiano e Viterbo con 89 ettari. Ci sono anche altri due progetti a Montalto, per 60 e 90 ettari. Questa è l’area del progetto, poi i pannelli coprono a mala pena il 30% per cento dell’intera superficie del progetto stesso. Si tratta di una serie di progetti. Il primo riguarda Pian di Vico che è andato incontro a mille opposizioni da parte delle associazioni locali, anche infondate. Dal primo impianto in poi, tutti gli altri sono andati incontro alla stessa sorte. In particolar modo da parte della soprintendenza. Ricorsi che, anche in tal caso, ritengo infondati e basati su scelte di parte”.

La soprintendenza ha però il compito di tutelare i beni culturali della Tuscia…
“Certo, però credo che il tutto vada fatto tenendo conto che la legge consente di fare impianti fotovoltaici sui terreni agricoli. Stiamo parlando della legge 387 del 2003, articolo 12. L’opposizione è arrivata anche dalle associazioni ambientaliste. Tutti i ricorsi però sono stati rigettati, compresi quelli del Mibact”.

Torniamo ai progetti sul territorio…
“Gis raggruppa investitori, sviluppatori e investitori istituzionali del settore fotovoltaico. Non c’è un solo soggetto, ma più imprese con più progetti che hanno caratteristiche comuni che hanno permesso questo raggruppamento. Queste società hanno poi un particolare codice di progettazione che si sono autoimposte. Scelgono in un certo modo i luoghi e i progetti. Sono imprese che sviluppano progetti nel Lazio. Molte nella provincia di Viterbo e altre in quella di Latina. Gli impianti non si possono mettere dappertutto, ma solo nelle vicinanza degli snodi elettrici nazionali. Nel Lazio ci sono due grandi snodi. Uno sta nella provincia di Viterbo e l’altro nella provincia di Latina. Finché non se ne realizzano altri, questi sono i luoghi”.

Come si muovono le imprese nelle fasi di sviluppo? Ossia, quali sono i criteri nella scelta di un’area dove installare un impianto fotovoltaico?
“Nelle fasi di sviluppo le imprese scelgono aree in genere depresse, non vincolate, cioè dove non ci siano vincoli urbanistici, paesaggistici, archeologici o legati al terreno, e dove non c’è alcuna interferenza con altri elementi. Questi sono i luoghi dove queste imprese ipotizzano la realizzazione dei progetti”.

 Che cosa si intende per area depressa?
“Ci sono delle aree che hanno delle aree che hanno un alto valore aggiunto. Pensa alle zone di produzione delle Doc o delle Dop. Ci sono zone che hanno un tale valore dove devi entrare veramente in punta di piedi perché rischi di fare danni. Qui è ovvio che incidi sulla vita di una comunità. Invece, scegliere zone lontane da tutto, lontane dalle strade, dalle arterie, dai paesi, zone nn coltivate o coltivate in modo povero. Ci sono delle zone che ti fanno impressione, dove ci sono calcinacci, spazzatura, tralicci alti 40 metri. Ci sono delle zone che sembrano incontaminate, ma lo sono talmente tanto che le persone non ci si avvicinano nemmeno. Queste sono le aree depresse. Inoltre, quando si va a fare un impianto, in modo trasparente si prendono contatti e si va a parlare con tutte le voci degli enti locali. I comuni, pensi che non siano coinvolti? Poi, alle volte, per difendersi, il soggetto deve dire che è contrario. E magari fa anche bene a dirlo. Poi i pareri sono positivi. Anche con prescrizioni. Una zona depressa è tale anche dal punto di vista lavorativo. A Montalto di Castro esiste un’eccellenza italiana nella produzione di impianti fotovoltaici. Ed esiste perché negli anni ci sono stati degli sviluppi importanti in questa zona e le maestranze locali si sono piano piano convertite dal costruire gli impianti elettrici a costruire impianti fotovoltaici. Sono società che adesso sono quotate in borsa. E non è una società di Milano, ma una società di Montalto che utilizzano maestranze del viterbese”.

Una volta che è stata scelta l’area, poi cosa succede?
“A questo punto le imprese iniziano un’attività di scouting che in inglese si chiama ‘Campo verde’, perché ci si sporca le scarpe. Si cammina. Per verificare se i terreni buoni sulla carta, perché hanno tutti i requisiti per non cozzare contro altri interessi, lo sono effettivamente. Perché il terreno deve poi essere esposto in un certo modo, avere una certa temperatura. Insomma, ci sono dei requisiti per vedere se quel terreno è idoneo. Non tutti ne possono entrare a far parte di questo gruppo. Ci sono società, ad esempio, che decidono di sviluppare anche laddove ci sono vincoli urbanistici. La legge non lo vieta. La legge impone un procedimento autorizzato durante il quale gli enti coinvolti esprimono dei pareri che sono vincolanti oppure no. Faccio un esempio. Se esiste un vincolo archeologico, il parere che esprime il ministero per i beni culturali, all’interno della conferenza dei servizi, il parere del Mibact diventa vincolante. E quel parere diventa insuperabile”.

Ed è questa la cosa che le società del fotovoltaico contestano?
“Il Mibact è il soggetto dello stato deputato a preservare alcuni valori costituzionali. Lo fa. Ma la nostra opinione è che qui nella Tuscia ci sia accanimento. Il Mibact nei ricorsi sostiene che possano esserci reperti anche se non c’è il vincolo, non c’è intenzione di apporre alcun vincolo e pare proprio non ve ne sia in futuro. Non ha neanche intenzione di verificare se ci sono reperti. Ma, reputando che la zona è ricca di evidenze archeologiche, sostiene che anche laddove non ci sono evidenze, queste potrebbero esserci lo stesso”.

Come viene installato un impianto fotovoltaico?
“Gli impianti fotovoltaico non sono depositi nucleari. Non richiedono lo sbancamento di una collina. Consistono nel mettere dei pali a un massimo di 80 centimetri di profondità senza colate di cemento. Quindici anni fa si usava il cemento, ma la tecnologia è cambiata. Adesso i pali, come dicevo, vengono messi nel terreno. Poi sui pali vengono messi i treckers e su questi i moduli. Ottanta centimetri è meno della profondità del vegetale. Ci sono poi regione e provincia che in sede di conferenza dei servizi capita spesso che riformino molti di questi progetti. La regione fa la valutazione di impatto ambientale ed emette l’autorizzazione finale. La provincia emette invece l’autorizzazione unica a realizzare l’impianto. Questi soggetti, regione e provincia, prescrivono infine gli scavi archeologici. E quando non ci sono vincoli prescrivono che l’impresa, quando va a realizzare, esegua degli scavi sotto vigilanza di un archeologo scelto tra quelli approvati dal Mibact e che risponde solo alla pubblica amministrazione. Gli scavi archeologici, vincolo o no, quando si vanno a mettere i cavi, l’impresa li fa lo stesso. E li fa sotto la sorveglianza di un archeologo che risponde alla soprintendenza. E se, una volta scavato e anche in caso di assenza di vincolo, dovesse spuntare fuori un reperto archeologico, i lavori si bloccano. E se quel tipo di reperto è incompatibile con la realizzazione dell’impianto fotovoltaico, l’impianto fotovoltaico non si fa più. Queste sono norme di legge. Dire no a un progetto perché sotto c’è la possibilità che ci siano reperti archeologici è un po’ non leale intellettualmente. A noi è già capitato di trovare dei reperti archeologici in altre parti d’Italia e di allestire delle mostre. Inoltre, non solo il tipo di tecnologia che si utilizza oggi consente di non impattare sul terreno, ma al termine di vita dell’impianto, circa 25 anni, devi rimuovere tutto e portare tutto come era prima. E se non lo fai, hai già depositato una fideiussione in banca che il comune può utilizzare per fare i lavori necessari”.

Alcuni però sostengono che il fotovoltaico sia incompatibile con un uso agricolo del terreno, sottraendolo ad altro e rovinando la zona…
“E’ tutto falso. Una balla. Ci sono studi dell’università di Torino che sostengono che con il fotovoltaico la fertilità del terreno aumenta in modo esponenziale. Questo per tutta una serie di motivi”.

Ad esempio?
“Il terreno protetto dalle piogge, l’acqua che fluisce in modo controllato, la palificazione che consente all’acqua di arrivare a 80 centimetri anziché ristagnare, il terreno che rimane ombreggiato e sempre irrigato. Quindi vengono scelti terreni non produttivi che poi vengono resi fertili. Esistono inoltre dei cicli di coltivazione, altrimenti i terreni si impoveriscono. Quando un terreno è a fine ciclo diventa un terreno impoverito con gli agricoltori che lo lasciano anche incolto affinché possa arricchirsi di nuovo”.

Quindi mi sta dicendo che il fotovoltaico potrebbe anche essere visto come parte della rotazione delle coltivazioni dei terreni?
“Esattamente questo. E resto stupito del fatto che non venga capito. Nel frattempo poi, durante i 25 anni di durata dell’impianto, l’urbanizzazione andrà avanti. E quando andremo a smantellarlo probabilmente troveremo attorno un pezzo di città. A quel punto avremo salvaguardato delle zone verdi. Questo grazie al fotovoltaico. Oltretutto la legge, quando si va a fare un impianto, prevede che il terreno non cambi destinazione d’uso. Il terreno resta agricolo. Deve restare agricolo”.

I pannelli poi come vengono smaltiti?
“I componenti di cui sono realizzati gli impianti fotovoltaici sono tutti riciclabili. Sono rame, alluminio e silicio. Un megawatt di potenza che viene smantellato da all’imprenditore un ritorno economico perché rivende sul mercato i componenti. Dopodiché, quando si acquistano i pannelli dal produttore, si paga un 3% per lo smaltimento. Soldi che vengono dati a 4 consorzi controllati dal Gse cui vanno portati i pannelli da smaltire. Poi ci pensano loro direttamente. Infine, i pannelli adesso vengono progettati in maniera compatibile con la pastorizia. Con aree deputate e un’altezza dei filari che consentono il passaggio delle pecore che mangiano così l’erba ed evitano lo sfalcio sotto ai pannelli. Il tutto facendo accordi con gli allevatori della zona che le imprese stesse organizzano. Sfalcio e reflui delle pecore poi possono essere utilizzati per produrre biomasse”.

Beneficiate di incentivi statali per la costruzione dei pannelli?
“Di nessun tipo. Non ci sono incentivi di nessun genere”.

Se a Pian di Vico, scavando, trovate la via Clodia, poi che succede?
“Le mappe archeologiche collocano la via Clodia più a nord dell’impianto. Ma che ne sappiamo. Faremo degli scavi, e se gli scavi la trovano abbiamo proposto, posto che quel pezzo di impianto non si potrebbe più realizzare, un museo a cielo aperto con visite organizzate. La responsabile archeologica del Mibact, di fronte all’ipotesi di scavi archeologici finanziati dalle imprese, sgrana gli occhi. E’ un’occasione irripetibile. Oggi invece cosa preferiamo? Preferiamo mantenere i terreni morenti, non scavare e non trovare nulla, per l’ipotesi che forse ci sia qualche cosa, senza la buona volontà di mettere i vincoli”.

Comunque i ricorsi della soprintendenza contro gli impianti nella Tuscia sarebbero stati tutti respinti…
“La soprintendenza non si è accanita contro un progetto. Non c’è un accanimento contro un impianto piuttosto che un altro. Li ha impugnati tutti. E tutti quelli che ha impugnato davanti al Tar e al Consiglio di stato, li ha persi tutti. Condannata alle spese. Spese che poi vengono pagate dai cittadini. Se si perdono tutti i ricorsi, c’è qualche cosa che non va. Poi va detta anche un’altra cosa. Sempre a proposito di Pian di Vico. Quella zona è stata individuata anche tra le aree idonee per il deposito di scorie nucleari. Perché il governo non ha tenuto conto della possibile esistenza di un tratto della via Clodia spostando l’attenzione altrove?”

Un’altra osservazione che viene fatta è che il fotovoltaico non abbia nulla a che fare con il paesaggio della Tuscia. Un po’ come un pugno in un occhio…
“Nelle zone scelte per i progetti non ci sono vincoli paesaggistici. Altrimenti non avremmo accettato i progetti. Le imprese non avrebbero mai investito milioni di euro in un’area con due vincoli paesaggistici. Questo non vuol dire che Tuscania non abbia vincoli. Vuol dire solo che le zone scelte a Tuscania non ne hanno. Ad esempio, proprio per quanto riguarda Pian di Vico, è stato il comune stesso a scegliere una zona. L’impianto di Montalto è a due metri da terra e circondato da alberi. Neanche li vedi. Non solo, ma dal punto di vista ambientale, mano mano che ci allontaniamo dal carbone, le centrali del litorale dovranno infatti passare ad altro, è meno conveniente connettersi ed è più conveniente per le energie rinnovabili. Il fotovoltaico può supplire al funzionamento delle centrali. Noi dobbiamo fare i conti con la realtà”.

E quale è la realtà?
“La realtà è che le persone si muovono per denaro. Certo, dobbiamo mettere delle regole che corrispondano alla nostra intenzione di moralizzare l’attività economica. Ma tutti si muovono per denaro. Tu devi rendere svantaggiosa economicamente l’energia che inquina l’ambiente. Si chiama esternalità. Come facciamo? Lo fanno già le norme che ci sono. E vanno rispettate”.

Il fotovoltaico deve essere per forza fatto a terra? Non si può fare anche sui tetti?
“L’Italia si è accordata con l’Europa per l’abbattimento delle fonti inquinati. Ma abbiamo bisogno di energia. Raggiungendo una certa potenza. Quella potenza non si può raggiungere mettendo i pannelli fotovoltaici sui tetti. Se anche noi costruissimo pannelli fotovoltaici su tutti i tetti di Milano, togliendo tutti i vincoli, avremmo una produzione industriale inferiore a quella di un solo impianto, come Pian di Vico. Pian di Vico, da solo, produrrebbe più energia di tutti i tetti di Milano. Non solo, ma come fai a mettere d’accordo tutti i proprietari di casa? Tutte le persone che abitano in un solo condominio? Noi dovremmo stipulare contratti con ciascun proprietario. E in un condominio, se un solo proprietario si oppone, il fotovoltaico non si fa. Dopodiché l’energia del sole la devi trasformare in energia alternata. Questo si fa con una cosa che si chiama inverter. Gli inverter, quando sono industriali hanno una certa capacità. E con una serie di questi inverter riesci ad immettere l’energia da un unico cavidotto a un’unica sottostazione. Immagina cosa significa questo su una città. Ogni tetto dovrebbe avere sia il suo impianto, sia il suo inverter. Questi progetti non si reggono economicamente. E un progetto si regge economicamente quando guadagni un euro in più di quanto hai speso. C’è poi un altro problema. Tutta questa energia va convogliata in un unico punto di connessione. Con il fotovoltaico sui tetti dovresti farti autorizzare migliaia di punti di connessione. E nessuna pubblica amministrazione e in grado di autorizzare tutti questi punti di connessione. C’è infine la questione della tensione della rete. Gli impianti sul terreno vanno anche in altissima tensione, cosa che non si può fare per quelli installati sui tetti. L’Enel stessa dovrebbe cambiare tutti i contatori. In conclusione, con il fotovoltaico sui tetti delle città, le persone vivrebbero con cavi e tralicci dappertutto, ovunque. Qualcuno propone anche di fare gli impianti nel deserto. Siamo disposti dal punto di vista energetico a dipendere da un altro stato? Vanno poi fatti i cavidotto. Come li fai? La realtà è complessa. Non siamo lobbisti disinteressati al punto di vista dell’altro. Se il fotovoltaico si fa in Italia, si fa per il bene della comunità. Rispettando le regole. E ci sono anche luoghi di confronto che si chiamano conferenze dei servizi. Ma ci sono dei soggetti che non vanno a vedere gli impianti oppure che sono contrari a tutti i progetti. Noi vogliamo solo che le decisioni vengano prese consapevolmente”.

Quali sono le conseguenze imprenditoriali di un ricorso da parte della soprintendenza?
“L’Italia ha tutta una serie di complessità nel funzionamento degli uffici giudiziari. Questo vuol dire che una controversia può durare circa 2 anni in primo grado e poi un anno e mezzo in secondo grado. Tar e Consiglio di stato. La durata di questi giudizi comporta che i progetti muoiono da soli. Indipendentemente dall’esito”.

Perché dopo tre anni e mezzo il progetto per un impianto fotovoltaico deve considerarsi morto?
“Le ragioni sono di due tipi. Una giuridica e l’altra economica. Il primo. La legge prescrive che l’impresa promotrice del progetto abbia la disponibilità dei diritti reali sui terreno interessati dall’impianto e dai cavidotti. Questi terreni però non sono dell’investitore, ma di cittadini che li mettono a disposizione con contratti di varia natura. Il contratto definitivo tuttavia si fa quando il progetto è autorizzato. Quindi, quale soggetto ti promette un terreno in vendita o in affitto oggi ed è disponibile a stipulare un contratto non si sa quando? Tra 4 anni? Cosa fa su quel terreno nel frattempo? Non può cambiare lo stato dei luoghi. Esiste inoltre il rischio di ‘sciacallaggio’, che è una tecnica ben precisa. Ci sono alcuni investitori che, quando sanno che il tuo preliminare per l’acquisto di un diritto reale sta per scadere, e lo hai contrattualizzato a mille euro a ettaro, questi vanno dal proprietario e gli promettono 3 mila euro a ettaro. Pur non essendo titolari di autorizzazioni. In questa maniera il rischio di attirare criminalità sul territorio è consistente”.

Quale invece la ragione economica per cui dopo 3 anni e mezzo di stop un progetto deve considerarsi morto?
“Qui non ci sono incentivi pubblici. Un progetto si realizza se si regge economicamente. Si tratta di progetti industriali. Un impianto da 150 megawatt comporta un investimento che è di circa 130 milioni di euro. Questi investitori non sono anonimi speculatori con capitali di dubbia provenienza, ma sono fondi infrastrutturali italiani ed esteri, come il fondo pensione, l’ordine professionale, la banca eccetera. Ecco, questi soggetti dovrebbero bloccare 130 milioni di euro di investimenti menti non si sa per quanti anni. Possono farlo? No. E se anche volessero farlo, un investimento viene fatto quando c’è un indice di ritorno. Ritorno che viene spalmato lungo tutti i 25 anni di vita dell’impianto. E so già quanta produzione avrò. Sappiamo l’indice di irraggiamento del sole in ogni specifico comune. Sappiamo anche l’indice di decadimento di produzione di ogni singolo pannello. Non si sa invece quanto verrà pagata l’energia. Ma ci sono dei metodi per capirlo. Dunque, più o meno, si sa quanto si può guadagnare in 25 anni. Se un ricorso mi fa slittare tutto di 4 anni, l’investimento dovrà essere spalmato non più su 25, ma su 29 anni. In questo modo si arriva a un punto in cui non c’è più un ritorno medio che consenta il progetto. Quando il ritorno medio va sotto una certa media, quel ritorno non è più prudente, perché si rischierebbe il fallimento. Questi ricorsi, che poi magari vengono respinti, fanno male perché rendono meno appetibili gli investimenti. Infine c’è una notizia in più”.

Quale è?
“C’è stata la pubblicazione della sentenza del Consiglio di stato che ha rigettato il ricorso del Mibact su un impianto fotovoltaico a Tuscania. Si tratta dell’impianto di 17 megawatt a Pian della Ginestra. Quanti anni però sono passati? Tre anni”.

Quando individuate un terreno su cui costruire un impianto, preferite affittarlo oppure acquistarlo?
“Preferiamo la formula del diritto di superficie che consente al proprietario di restare tale e di tornare ad avere la disponibilità del terreno dopo 25 anni”.

Quanto pagate ad ettaro?
“Questo è un dato sensibile. Se te lo dico gli speculatori vanno dal proprietario ad offrirgli di più”.

Perché, secondo voi, tutti questi ricorsi nei confronti degli impianti fotovoltaici nella Tuscia?
“Qui siamo sul piano delle opinioni e anche io un’opinione me la sono fatta. E secondo me la risposta è diversa per ognuno dei soggetti che abbiamo nominato. Noi abbiamo dei progetti in un’altra area della regione Lazio, la provincia di Latina, nella quale la soprintendenza ci dà pareri favorevoli prescrivendoci l’assistenza archeologica. Il tutto in una zona dove c’è la via Nettunense sottoposta a vincolo archeologico. L’archeologo della soprintendenza è venuto. E i progetti sono andati in autorizzazione senza allarme sociale. L’allarme sociale si crea quando un ministero fa ricorso contro tutti i progetti”.

State quindi sostenendo che è come se da parte della soprintendenza ci sia un pregiudizio nei confronti dei progetti di fotovoltaico che riguardano la Tuscia?
“Abbiamo l’impressione che nei confronti di questi progetti ci sia un pregiudizio. Perché non tutte, ma questa specifica soprintendenza non vuole nessun cambiamento. Abbiamo seguito un grosso progetto a Siracusa. Inizialmente la soprintendenza ci ha dato parere negativo. Abbiamo allora sottoposto tutta una serie di argomenti, abbiamo chiesto un incontro, ci hanno ricevuto e la soprintendente ha detto: ‘non mi ero resa conto, avete ragione’. E ha dato parere positivo. A Viterbo non c’è stato verso. Qui, provincia, regione e prefettura hanno sollecitato incontri che la soprintendenza non ha mai voluto fare. Continuando a dare pareri negati e a impugnare qualsiasi progetto. C’è qualche problema a confrontarci? E a chiedere un terreno di incontro non siamo solo noi a chiederlo, ma la stessa regione Lazio. In questo modo che cosa ha tutelato la soprintendenza? Nulla. Poteva chiederci di fare un museo, di fare gli scavi archeologici”.

Daniele Camilli

(Tusciaweb)

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