La decisione dovrebbe arrivare domani. Una data simbolica, anniversario degli attacchi terroristici di Al Qaeda. Per la pace tra il governo di Kabul e i talebani si inserisce la Turchia: conferenza internazionale a Istanbul dal 24 aprile al 4 maggio
Entro l’11 settembre, a vent’anni dall’attacco di Al Qaeda, gli Stati Uniti lasceranno l’Afghanistan. Joe Biden annuncerà domani il ritiro finale delle ultime truppe Usa da quella che è ormai “la guerra più lunga”: è già durata più del secondo conflitto mondiale, della guerra di Corea e del Vietnam messe assieme. In questo ventennio hanno perso la vita su quel fronte duemila soldati americani e almeno centomila civili afgani.
Biden mantiene solo in parte un impegno, che era stato preso dall’Amministrazione Trump. Il ritiro totale infatti doveva avvenire entro il primo maggio. Facendolo coincidere – come termine ultimo – con la scadenza dell’11 settembre, Biden cattura l’attenzione dell’opinione pubblica americana ma deve sperare in una reazione positiva da parte dei talebani. Nel negoziato triangolare sulla cessazione del conflitto, che ha visto gli Usa trattare insieme al governo regolare di Kabul e ai nemici storici, i talebani avevano posto il ritiro entro il primo maggio come condizione per non riprendere le ostilità. Sarà Erdogan, con il placet di Biden, a ospitare in Turchia – dal 24 aprile al 4 maggio – il prossimo giro di negoziati di pace e di ricerca di un assetto politico che includa talebani e governo di Kabul.
L’annuncio di Biden è stato preparato nelle consultazioni con gli alleati. Le truppe residue infatti sono a maggioranza non americane. Gli Stati Uniti hanno ancora sul terreno 3.500 militari, le altre forze Nato sono quasi il doppio. Per Biden l’annuncio ufficiale rappresenta una sorta di rivincita sul Pentagono. Quando lui era il vice di Barack Obama, si era opposto strenuamente alla strategia del “surge” – cioè l’incremento di forze sul terreno – voluta dai generali. Aveva perso quella battaglia. Ma alla fine il bilancio è quello che lui paventava: l’impegno militare americano si è trascinato per altri anni, senza con questo modificare in modo decisivo i rapporti di forze locali. Il governo regolare è sempre debole. I talebani sono sempre in grado di recuperare un’influenza decisiva.
Nel frattempo è cambiata la visione strategica degli Stati Uniti, Pentagono incluso. Quasi tutti i responsabili della politica estera e militare a Washington riconoscono che la concentrazione di risorse nel Medio Oriente è stata un errore o è durata troppo. La sfida del presente e del futuro si chiama Cina. Il grosso delle energie militari dell’America si deve orientare verso il quadrante Indo-Pacifico. L’Afghanistan è solo marginalmente interessante, nella misura in cui possa scivolare verso l’orbita russo-cinese oppure verso quella dell’India, che Biden vuole legarsi sempre di più. Ma in una tipica giornata di lavoro della Casa Bianca, del Pentagono e del Dipartimento di Stato come quella di ieri, ha suscitato più preoccupazione l’incursione di 25 jet cinesi sui cieli di Taiwan, che non l’eventualità di una ripresa di attentati da parte dei talebani.
L’Afghanistan rappresenta il passato, il rischio futuro di conflagrazione di un conflitto globale si concentra nel Mare della Cina meridionale. Non a caso ieri un altro dossier a cui la diplomazia americana ha dedicato attenzione, è stato quello di Fukushima: Washington ha voluto rintuzzare la accuse cinesi al Giappone sul piano per smaltire in mare le acque usate per il raffreddamento del reattore nucleare colpito dallo tsunami dieci anni fa. In Afghanistan ora il compito degli americani è convincere i talebani ad accettare qualche mese di slittamento; strappare garanzie aggiuntive sul futuro ordine pacifico del paese; e garantire un ritiro ordinato di tutte le forze Nato scongiurando tragedie dell’ultima ora.
(La Repubblica)