29 Marzo, 2024
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Viaggio nella sanità lombarda alle prese con la terza ondata di covid

Il racconto di una paziente ‘a domicilio’ tra le inefficienze e la scoperta di un ambulatorio dove la cosa pubblica funziona

Ho trovato la sanità pubblica su Marte, in Lombardia. È stato dopo sette giorni di Covid, sette giorni in cui dalla comunicazione del referto di positività al medico di base era arrivata solo la risposta via sms “Ricevuto”.

Nessuna chiamata da Ats, l’agenzia di tutela della salute, tre lettere ambiziose che dovrebbero rappresentare il tuo angelo custode, prenderti in carico, si dice, e poi tracciare un trama dei malcapitati con cui hai avuto a che fare prima di sapere di avere il virus. Proteggere te, proteggere loro.

Non per colpa della dottoressa, alle prese con un migliaia di pazienti accalcati sul suo whattasp, chi per paure fondate, chi per paura della paura, ma l’angelo di Ats da lei contattato non si è mai messo in volo verso di me. Febbre, poca. Dolori muscolari, gagliardi. Respiro, affaticato, ma non tanto da farti sentire l’odore della trincea.Solo una paziente alle prese con un virus “che viene da Marte”, così l’ha definito per evidenziarne le bizzarrie il biologo molecolare Matteo Giacca in una corposa ricerca su Lancet.

E la cura, allora, su che pianeta vado a scovarla? Per motivi di lavoro la rubrica telefonica nell’ultimo anno si è affollata di virologi e pneumologi. Digito, fiduciosa: “Come mi curo? “Le risposte sono disparate: non prendere nulla, giusto un’aspirinetta per evitare trombi, e un integratore per tenere su il sistema immunitario; se la saturazione è così ballerina, andiamo di cortisone; noi all’ospedale X usiamo un protocollo con antibiotici e cortisone; e un’altra, cortisone ed eparina; e un medico, no ma sei pazza, il cortisone solo per i casi gravi e dopo una tac al polmone. Per iniziare scelgo di stare leggera, aspirina e integratore, ma nel frattempo la media dei valori dei due saturimetri che ho in dotazione (uno, comprato dopo il tampone, l’altro recapitatomi a domicilio da un amico che ha, giustamente, poca fiducia nelle mie virtù pratiche) si abbassa.

Con molta approssimazione, perché ogni dito restituisce un numero diverso e nemmeno togliere lo smalto, che apprendo essere un falsificatore di saturimetri, chiarisce la situazione. Pare che l’ossigeno appaia e scompaia nel sangue nel giro di pochi minuti con la volubilità di una manifestazione mistica alla San Gennaro.

Faccio anche il test della camminata, come da raccomandazione medica, ma il corridoio di casa è breve e sul web c’è scritto che le svolte frequenti influenzano il risultato. Dopo sette giorni dal tampone è un’amica a stimolare in me il miraggio: “Perché non richiami il tuo medico?”. Giusto, la mia dottoressa. “Con una saturazione così, domani la mando all’hot spot dell’ospedale Sacco, padiglione 62”. Uno scenario lunare dardeggia mentre maledico la mia sfiducia di cittadina lombarda impegnata a contare le falle del sistema, priva di ogni speranza di redenzione. Un’ora dopo, arriva la telefonata: “Allora la aspettiamo domani alle 12”. C’è un solo problema da risolvere: come ci vado da paziente positiva?

Gli amici ti portano la spesa, la brioche al mattino e pure i fiori, mica posso chiedergli di suicidarsi per me stringendosi nello stesso abitacolo assieme al Covid. Scopro che esiste un accordo tra la prefettura di Milano e i taxi per il trasporto dei contagiati. Ma scopro subito dopo che è scaduto. L’unica soluzione è l’ambulanza per il trasporto privato. Così per la prima volta nella vita salgo su un’ambulanza, dribblando a tutta velocità  come una ladra la custode del palazzo, esterrefatta perché non mi fermo per i consueti gossip condominiali, e tutti i potenziali vicini che resterebbero atterriti e chiederebbero una sanificazione mastodontica se dovessero vedermi salire su quel mezzo con la croce rossa.

Il viaggio che mi costerà cento euro è di tutto confort: l’ambulanza per me, il volontario il Covid se l’è già mangiato e digerito da mesi, e chiacchieriamo amabilmente fino al padiglione 62. Dentro ci sono due giovani medici e una giovanissima, laureata da pochi mesi. L’ambulatorio, mi spiegano, è attivo da dicembre. La visita è lenta e accurata: anamnesi, fattori di rischio, peso, ascolto del cuore, annotazione dei “crepitii” del respiro, conferma dall’ecografia che il Covid si è fatto un giro, per fortuna ‘largo’, nei polmoni. “Polmonite focale non grave”, rassicurano i ragazzi in camice. Mi regalano un terzo saturimetro per raffinare la media. Uscendo, leggo sul foglio riassuntivo della visita: “Prestazione a tutela della sanità pubblica”. Mi stropiccio gli occhi. Il “Covid viene da Marte” e al padiglione 62 nella Lombardia dell’ultimo anno, dove il coro dei pazienti è stato uno e uno solo, quello dell’abbandono, mi sembra di essere appena stata su Marte.

Diciotto giorni dopo la diagnosi, 17 marzo. Il ritorno sulla Terra. 

“Buongiorno, chiamo da Ats Milano. Se ha un minuto le faccio le domandine”. “Prego”. “Come sta? Che sintomi ha?” “Abbastanza bene, ho una polmonite focale in via di soluzione”. “Ah, mi dispiace”. “Poteva andare peggio”. “Data di inizio dei sintomi?”. “28 febbraio”. “Sede di lavoro? Mi serve l’ultimo giorno che ha lavorato”. “Il 27 febbraio”. “Ha già  avvisato il posto di lavoro? Ha avuto contatti oltre alla parte lavorativa, che poi sarà una segnalazione a parte, con altre persone nei due giorni precedenti all’inizio dei sintomi (il 26 febbraio, 19 giorni prima, ndr)? Se mi da’ i nominativi li aggiungo come contatto. Se sono contatti stretti devo agganciarli e devono fare fare i 14 giorni di quarantena”. “Sì, ma sono passati 15 giorni. Forse questa telefonata doveva essere fatta 15 giorni fa, non crede?”. “Ha ragione, siamo un po’ in ritardo. Senta, allora non faccio nessun tracciamento di contatto, manderò solo la segnalazione alla sede di lavoro”. “Non si preoccupi, la sede è stata chiusa, hanno fatto tutti il tampone, e poi è stata anche riaperta”. “Vabbé ma la segnalazione la manderò comunque”.

(Agi)

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