29 Marzo, 2024
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Quanto vale il tesoro del Congo, Paese poverissimo sfruttato dai cosiddetti “Paesi avanzati”

Dal coltan all’oro, dal petrolio al legno: è lo stato più ricco di risorse naturali dell’Africa, gli oltre 84 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere, solo se i suoi governanti investissero le royalty ricavate dalle estrazioni minerarie nel Paese

La Repubblica democratica del Congo è un non luogo. Un Paese che non trova pace, attraversato da conflitti aspri o a bassa intensità. Nessuno, fino ad ora, è riuscito a dare una speranza ad oltre 84 milioni di abitanti. Anche se le elezioni del 2019, con la vittoria di Felix Tschikedi, figlio dell’oppositore storico di Mobuttu Sese Seko e di Kabila padre, sono riuscite a portare il Paese verso una parvenza di stabilità.

L’oggetto del contendere rimane, il Paese stesso. Ciò che il suo sottosuolo contiene: tutto quello che il mondo libero desidera. Tutte le risorse naturali e minerali sono lì. Per impossessarne si è combattuta una guerra che l’ex segretario di stato americano Madeleine Albright definì “la Prima guerra mondiale africana“. Sul terreno si sono dispiegati gli eserciti di Burundi, Ruanda, Uganda, Zimbabwe e Angola. Da quella guerra sono nate decine di formazioni di guerriglieri al soldo delle nazioni stesse o di altre più lontane.

Milizie che continuano ad operare in tutto il Paese e in particolare nel Kivu e nel Nord-Est. Non a caso quelle aeree sono ricche di risorse minerarie. Cambiano nome, affiliazione, ma l’obiettivo è sempre quello: coltan, oro, petrolio e altro. Per riportare la pace è stata necessaria una missione dell’Onu con oltre 17 mila uomini, la più grande e impegnativa mai messa in campo dalle Nazioni Unite.

Oggi la missione è ancora al suo posto, ma la guerra non è finita e la pace è lontana. Spariti gli eserciti stranieri, sono rimasti i guerriglieri che infestano il territorio, lo rendono insicuro e si battono per lobby economiche e politiche, persino di potenze regionali interessante alle risorse.

La Repubblica democratica del Congo (Rdc) è lo stato più ricco di risorse naturali dell’Africa, gli oltre 84 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere, solo se i suoi governanti investissero le royalty ricavate dalle estrazioni minerarie nel Paese. Invece no. L’economia del Paese è tradizionalmente orientata alle esportazioni, fortemente dipendente dalle commodities primarie.

I diamanti hanno sostituito rame e cobalto come principale voce delle esportazioni. Il cobalto, di cui è ricco il Paese, finisce tutto nelle mani dei cinesi. I diamanti, oltre 22 milioni di carati, sono nelle mani delle multinazionali. Il coltan – estratto praticamente solo in Congo – prezioso per l’industria della telefonia mobile e per quella aerospaziale, è gestito dal Ruanda.

Il Congo possiede la seconda foresta pluviale al mondo, da cui si ricava legname pregiato. L’autosufficienza alimentare in molte aree del paese è un miraggio. Le terre coltivate rappresentano solo il 4% del totale, nonostante il 75% della popolazione attiva si occupa di agricoltura, per lo piu’ di sussistenza.

Nel Paese si trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio e petrolio. Materie prime che fanno gola a mezzo mondo. A nessuno interessa se alle elezioni vince questo o quest’altro, purché garantisca gli affari. Quello che interessa davvero è l’enorme ricchezza custodita dal sottosuolo congolese. Quello che vi cammina sopra conta un po’ meno.

E, del resto, questo è un vecchio adagio del dittatore Mobutu Sese Seko che in un’intervista a un quotidiano francese diceva: “Quello che c’è sotto terra è mio, quello che si muove sulla terra è mio, quello che c’è nelle acque è mio, quello che vola in cielo è mio”, l’intervistatore osservava: “Cosa rimane al popolo?”, e Mobutu divertito rispondeva: “Il multipartitismo”, diremmo noi la democrazia.

Ma con questa non si mangia: il Pil pro-capite è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433 che colloca la Repubblica Democratica del Congo al 176esimo posto al mondo. E la stragrande maggioranza della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno. In tutto questo disordine e povertà non poteva mancare la penetrazione del terrorismo islamista.

I jihadisti vivono di disordine e povertà – forse meno di religione – il loro brodo di coltura. È nato l’Islam State Central Africa Province, una sorta di emanazione del Califfato del defunto al-Baghdadi. Ed è proprio nel Nord-Est della Repubblica democratica del Congo dove vengono rivendicati numerosi attentati.

Le rivendicazioni se le attribuiscono svariati gruppi, ma la maggior parte di queste azioni criminali sono attribuite al gruppo nato in Uganda e di ispirazione salafita, Allied democratic Forces (Afd). E tutto ciò accade in una regione tra le più evangelizzate e che qui nasca uno stato islamico è qualcosa di anomalo e poco spiegabile.

Di certo qualcuno ha interessi tali da investire denaro in queste formazioni terroristiche. Non è da escludere che i Paesi del Golfo abbiano interessi a riversare denaro su queste formazioni per occupare pezzi di territorio ricco di risorse. Non è un azzardo dire che ciò che sta accadendo in Kivu è una tappa della “scoperta” dell’Africa da parte del terrorismo jihadista che, in molti casi, è arrivato prima – in concomitanza e in concorrenza – di Occidente, cinesi, russi e molti altri.

(Agi)

 

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