16 Aprile, 2024
spot_imgspot_img

Transitare al Nord. Il Governo Draghi fra potere territoriale e questione ecologica

La transizione ecologica, e il suo legame ambiguo e perverso con l’innovazione tecnologica, è il punto cruciale per capire cosa ci aspetta da Draghi e dai ministri appena nominati

Un’ondata di correnti gelide provenienti dall’artico colpisce la penisola italiana. L’inverno è decisamente arrivato da tempo, ed è uno dei più freddi degli ultimi decenni, in tutto il paese. Tuttavia, la realtà e la percezione del clima cambia decisamente tra Sud e Nord, la linea di passaggio sta all’altezza circa della Regione Toscana.

Di clima sembra che sentiremo parlare molto nei prossimi tempi. Ma non è ciò che interessa al Gran Duca di quest’ultima regione, Matteo Renzi. Fin dalla crisi del Governo Conte 2 circolano a sinistra opinioni forti su questo personaggio, certamente meschino. C’è chi lo vuole, ora più che mai, dipingere come sconfitto dalla sua stessa ambizione. Niente di più sbagliato, a mio avviso.

Quando il degno e ampissimo disprezzo viene tramutato in derisione, si tralasciano particolari importanti.
Il disgusto giustamente circolato a fronte della nomina dei (vecchi) ministri del nuovo Governo, non deve far distogliere da quello che, mi sembra, sia un dato inconfutabile: se, come si dice, «la politica ha fallito», «i partiti hanno fallito», «sono tornati i tecnici», ciò non significa affatto che le parti politiche non abbiano più potere. Il potere politico, nel Belpaese, è tutto potere clientelare, territoriale, mafioso. E questo potere funziona secondo il principio della “sussidiarietà”.

Le tematiche politiche dei partiti, così come le deleghe dei ministri, possono cambiare da un giorno all’altro. Ma ciò che è davvero lento a modificarsi e vitale per la riproduzione del ceto politico, sono i referenti amministrativi degli interessi economici localizzati.

La Lega degli ultimi giorni, lo si sta dicendo da più parti deridendo – con la stessa approssimazione operata con Renzi – la figura di Salvini per i “voltafaccia” ideologici su Europa, banche e migrazioni, è certo esempio lampante di questo tipo di potere politico all’italiana. Dopo aver provato, negli anni scorsi, ad approfittare di un vuoto nella destra meridionale, nei momenti che contano davvero la Lega torna – comodissima – a Nord, nei suoi steccati territoriali e clientelari. Essere referenti baronali dei grandi capitali del Nord Italia, e di quelli del Nord del Mondo che potrebbero voler approdare per depredare il corpo sociale, è la posta più grossa che vi è in palio ai tempi del Recovery Fund.

Tuttavia, facendo un passo indietro, l’impressione è che la crisi dell’ultimo mese sia stata innescata da Matteo Renzi con la stessa logica, seppure più limitata e “provinciale”. Il Granduca in questione detiene ovviamente Firenze, città mostruosamente appetita e trasformata dai grandi capitali negli ultimi decenni; seconda solo a Milano e assieme, forse, a Venezia e Bologna. Ma, soprattutto, il barone (altro che principe…) Renzi detiene ancora la Toscana, dove ha appena piazzato per 5 anni un suo fedelissimo grazie a non si sa quali deliri interni al Partito Democratico.

Ciò vuol dire, a proposito di transizione ecologica, avere il controllo e le mani in pasta dei tanti soldi pubblici destinati in tutte le iniziative più inquinanti e devastanti della Regione, dalle infrastrutture dannose ed inutili (e non completabili, ma comunque onerosissime) allo stoccaggio dei rifiuti, dagli stabilimenti ENI e Leonardo, fino allo scempio delle cave di marmo nella zona apuana – anch’esse, guarda un po’ con collegamenti finanziari che portano in Arabia Saudita.

Ecco il mantra sicuro della transizione “ecologica” neoliberale: più inquini, più incentivi puoi ottenere per (far finta di) non farlo, tramite un pizzico di quella che oggi chiamano innovazione tecnologica.

La transizione ecologica, e il suo legame ambiguo e perverso con l’innovazione tecnologica, è il punto cruciale per capire cosa ci aspetta da Draghi e dai prossimi anni, ma non sono in grado di svilupparlo qui, né da solo. Per fortuna, su questo, vi sono movimenti e intelligenze attive che – sono sicuro – avranno molto da dire, in un campo cruciale e difficile.

Quel che mi interessa qui chiedermi è: pensiamo che il peso politico di un Renzi si misuri in base a quanti ministeri o voti ottiene? Pensiamo che il PD con più ministri e circa 10 volte i voti del partitello di Renzi, “conti di più” di chi detiene gli interessi clientelari principali di Toscana e (credo, ma non la conosco abbastanza) Emilia-Romagna?

E non parlo di capacità di vendersi al miglior offerente, parlo di potere, dunque necessariamente economico e politico. Una vulgata più acuta di quella della pura derisione, infatti, vuole che Renzi abbia agito per conto di Confindustria. Sono d’accordo, ma credo che anche qui si debba essere ben più precisi. Spesso, infatti, si è sentito evocare questo «agire per conto di Confindustria e dei grandi interessi economici» contro il Governo Conte, come se quest’ultimo si fosse messo di traverso.

Sarà la mia prospettiva deformata, centrata sulle questioni ecologiche, ma mi è da subito sembrato non credibile che un Governo che affida del tutto il pacchetto più grosso del Recovery Fund, la transizione ecologica, a ENI e Leonardo, si stia mettendo di traverso ai grandi interessi economici nazionali. E mi pare anche difficile credere che il Governo Conte 2, e l’ex primo ministro, si stessero in qualche modo opponendo a “come” il grande padronato italiano voleva veder investiti i soldi del Recovery Fund. Il problema, come si capisce da quanto scritto finora, si colloca a mio avviso nel “dove” ben prima che nel “come”.

La localizzazione degli interessi economico/politici è, credo, un tratto tipico a un tempo della governance neoliberale e dello Stato italiano.

Tuttavia, nel momento in cui c’è in ballo l’accaparramento di fondi e crediti europei, questo tratto si approfondisce e assume i caratteri di una competizione feudale. Tanto più che, nell’ultimo anno pandemico, sono successe un bel po’ di cose che segnalano l’importanza, per la classe dirigente industriale, di mantenimento degli assetti di dominio territoriale.

Si ricordi che mentre il virus esplodeva nel Nord Italia a febbraio 2020 e Confindustria si opponeva alla chiusura pretesa da rinnovate mobilitazioni operaie, uno dei lockdown più duri del mondo occidentale veniva imposto in misura eguale a tutto il Paese per tre mesi, nonostante per tutti e tre i mesi (fino alla dolce calata delle vacanze estive) il virus fosse ben concentrato in Pianura Padana. Si incolpavano in anticipo i meridionali emigrati a Nord quando portavano i virus coi treni (è successo davvero?). Il lockdown era comunque eguale solo formalmente, e credo sia stato questo il punto di incontro principale tra il Governo e Confindustria.

Nella Milano-Lombardia metropoli-focolaio diffuso, ben più della metà della forza lavoro continuava a muoversi ogni giorno “per necessità” del tessuto industriale, ma non era e non poteva essere così per Roma, Napoli e tutto il centro-sud, dove l’economia informale e di strada è stata bloccata di colpo e senza apparente circolazione del virus. Si pensi a due dati sulle “due Italie” che messi assieme fanno, credo, fanno pensare a quanto possa essere importante il “dove” investire:

Milano dallo scoppio della pandemia ha visto fuggire 40mila abitanti, mai rientrati, con tutto ciò che comporta in termini di rendita e valorizzazione urbana; Roma, durante il primo strettissimo lockdown, ha visto una netta riduzione delle persone morte rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Si pensi poi a tutta la vicenda della “discriminazione dei lombardi”, che qualcuno ha brillantemente rinominato “fragile lombardinity”. Anche qui, al netto delle facili ironie, è importante notare che una certa fragilità è davvero emersa: cosa sarebbe potuto succedere con un Recovery Fund speso in modo corrispondente alle fragilità economiche storiche dei territori, mentre la locomotiva del Nord Italia subiva uno storico arresto? Non sono un esperto di sviluppo e sottosviluppo, ma mi sembra chiaro che mantenere la subalternità del Sud fosse necessario, urgente.

E questo, sì, poteva risultare un bel problema per i grandi capitali del Nord. La polemica ideologica di Renzi su MES e Reddito di Cittadinanza è stata, oggi è palese, del tutto strumentale, per coprire un’operazione delicata. Ma la destra in Italia è più diretta, si lascia scappare alcune opinioni limite: ricordate quanto “Libero” titolò, agli albori del Governo Conte 2, “Comandano i terroni”? Un Governo con “troppi terroni” – e la necessità di assicurare la riproduzione della classe politica dei rispettivi baronati – avrebbe potuto effettivamente spostare a Sud molti investimenti.

Con la congiuntura economica che si apre, apparentemente espansiva, ciò era intollerabile: poteva voler dire attrarre energie vive al Sud Italia, e trasformare la crisi pandemico-economica del Nord Italia nella fine della sua appartenenza al capitalismo del Nord Europa.

Insomma, la mia ipotesi sulla storiella della caduta di Conte è questa: Renzi, anziché farsi pagare una “mazzetta” o mostrarsi come possibile portavoce dai grandi industriali del Nord, come credono molti dei commentatori di sinistra, ha pagato una tangente (politica) molto ampia per assicurare al suo feudo – Firenze e, poi, la Toscana – un pezzo sostanzioso delle prossime manovre economiche. La Toscana è sulla linea di confine, climatica, politica ed economica, ma in questo modo deve essere Nord, deve essere compresa tra le regioni (del centro-nord) che vedranno l’ingresso accelerato dei grandi capitali internazionali, delle grandi piattaforme digitali.

Non so come e quanto questa operazione Renzi abbia avuto successo, e sono pronto ad essere smentito, ad articolare ulteriormente la vicenda e renderla più complessa nel confronto. Ma mi sembra un po’ più credibile del dipingere il Governo Conte 2 come “troppo di sinistra” o “troppo assistenzialista”.

Occorre comprendere il campo politico che il Governo Draghi ci apre davanti, senza affrontare le diatribe del dibattito pubblico immediato, ma cercando piuttosto di ricostruirne un senso, riavvolgendo il filo. In questo senso, le riflessioni che sto esprimendo erano state stimolate da alcuni post de “Il Sud Conta” nei giorni più caldi della crisi politica scatenata da Renzi, che invito tutti, anche a Nord, a seguire.

In quei giorni, tutti i gruppi sociali tendevano a ripetere i propri ritornelli tranquillizzanti, e ammetto di essermi chiesto se anche la prospettiva delle compagne e dei compagni meridionalisti avesse la stessa postura. Tuttavia, le dichiarazioni di pochi giorni fa del capogruppo leghista alla camera sulla necessità di evitare la perequazione territoriale che Conte voleva mantenere, mi ha aperto gli occhi e fatto collegare dei puntini sul baroncino Renzi che mi erano rimasti sospesi.

Ieri sera, Draghi ha nominato 25 ministri. 18 sono del Nord. 9 Lombardi, tutti nei posti chiave per il Recovery Fund.

A Nord rischia di nevicare un po’ ovunque, il che potrebbe abbassare i tassi di inquinamento più alti d’Europa, quelli che bruciano i polmoni e uccidono decine di migliaia di persone l’anno. Da 50 anni, ben prima della pandemia di Covid-19.

Il centro-Sud rimane a clima mite? Di certo, rischia di restare affogato dalla povertà. E Giorgia Meloni è appostata alla finestra. Apparentemente è l’unica finestra (politica) che dà su quel versante. Ma la solidarietà, l’educazione e la sanità autogestite che ho avuto modo di incontrare parzialmente sono impressionanti nel disastro del Pubblico. In Calabria ci sono ospedali dismessi oggi occupati. Da mesi. Sta cambiando tutto, il riscaldamento globale è in buona parte inesorabile, e ci riguarda tutti. Ma non tutti i luoghi si scaldano nello stesso modo.

(dinamopress)

Ultimi articoli