29 Marzo, 2024
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Pubblicato uno studio sull’economia della biodiversità. Ma è la «pietra miliare dell’estrattivismo»

È stata finalmente presentata l’attesissima “Dasgupta Review”, uno studio di 600 pagine sull’economia della biodiversità commissionato dal governo britannico in vista della COP 26.

 

Accolta con giubilo da alcune grandi organizzazioni ambientaliste, quella ricerca è invece una pericolosa proposta di andare ancora più in fondo nel progetto di accumulazione di lavoro gratuito che si annida nei cicli biologici. 

La Dasgupta Review è un capolavoro di fumo negli occhi: attacca l’antropocentrismo mentre riafferma la divisione cartesiana fra umanità e natura, critica l’estrattivismo mentre ne imposta il salto quantico dalla materia all’informazione, dalla “carne” alla “vita”. Una pietra miliare del nuovo ciclo di profitti ai danni della rete della vita

Mentre le nostre teste sono chine sull’ombelico di casa, il Ministero del Tesoro britannico annuncia la pubblicazione di uno studio colossale che ha commissionato a Partha Sarathi Dasgupta, economista indiano e docente all’università di Cambridge.

La ricerca, nota con il nome di #dasguptareview, è lunga 600 pagine e si intitola “Economia della Biodiversità”. La tesi è che la “Natura” sia stata sempre un punto cieco per l’economia (blind spot), che ha estratto risorse senza pensare a rigenerarle. Occorre quindi un cambio di paradigma.

Purtroppo, quello che la Dasgupta Review propone non è un cambiamento, quanto piuttosto un’ulteriore spinta alla valorizzazione economica delle relazioni che innervano la rete della vita.

Se in passato abbiamo utilizzato gli ecosistemi come fonti di estrazione e bidoni della spazzatura – è la tesi – ora dobbiamo gestirli calcolando meglio l’offerta di servizi che questi sono in grado di fornire e chiedendo a chi ne beneficia di pagare per essi.

Ci sono una serie di lavori gratuiti che la “Natura” svolge di per sé, alcuni dei quali sono già messi a profitto: basti pensare al ciclo del carbonio che orienta gli scambi di crediti sui mercati finanziari.

Oppure degli ostacoli che la “Natura” pone sul cammino dello sviluppo e che vanno smussati grazie alla tecnologia: si pensi alla manipolazione genetica.

Nessuno di questi due approcci è rinnegato dalla Dasgupta Review, che li accoglie e li rilancia. Il punto, secondo lo studio, che fra le altre cose imprimerà una direzione senza ritorno alle politiche per il clima già dalla prossima #COP26, è che dobbiamo andare ancora più in fondo nel progetto di accumulazione di lavoro gratuito che si annida nei cicli biologici.

La proposta è che profitto e sostenibilità possano andare a braccetto adottando “soluzioni basate sulla natura” (Nature Based Solutions).

 

In pratica, una riedizione bombata di steroidi delle tesi fallimentari alla base della green economy. La Dasgupta Review è un capolavoro di fumo negli occhi: attacca l’antropocentrismo mentre riafferma la divisione cartesiana fra umanità e natura, critica l’estrattivismo mentre ne imposta il salto quantico dalla materia all’informazione, dalla “carne” alla “vita”.

Non stupisce che alcune grandi organizzazioni ambientaliste e i media abbiano accolto con favore questo studio, che promette la conservazione in “buono stato” della “Natura” e la perpetuazione del modello capitalistico di crescita illimitata, magari accostando al PIL qualche altro indicatore, per esempio della “biodiversità”.

Qualcuno ha formulato critiche interessanti, come George Monbiot sul Guardian, che ha riproposto un suo pezzo di due anni fa in cui sostiene che invece di dare un prezzo ad ogni cosa, dovremmo recuperare l’idea che la natura abbia un valore intrinseco, indipendentemente da ciò che gli esseri umani possono trarne.

Un’idea, dice, considerata pericolosa. “Ma questa idea pericolosa è stata la forza motivante di tutte le campagne ambientali di successo”. Utile da leggere anche Jason Hickel che, con un breve thread su Twitter , afferma che “Il capitale affronta i costi degli input con l’obiettivo esclusivo di fare tutto il possibile per deprimerli. Questo è vero per il lavoro ed è vero anche per la natura. Se vogliamo ridurre lo sfruttamento della natura, abbiamo bisogno di un’economia che non richieda un’espansione perpetua”.

Gli economisti mainstream, così come gli scienziati mainstream, così come le élite che ne orientano l’operato e ne traggono beneficio, non hanno le parole per conversare propriamente su quella che Jason Moore ha chiamato con un bellissimo termine “rete della vita”.

Non hanno le parole per descrivere quel sistema di relazioni che scorre e si intreccia costantemente in una coevoluzione continua. Hanno le parole solo per appropriarsene e dominarlo, mettendo in atto una espropriazione di valore intriseco tramite l’attribuzione di valore economico.

Non più un valore, ma un valore “per qualcuno”, in particolar modo per chi occupa il vertice del grattacielo di Horkheimer .

Quel valore si trasforma dunque in una “funzione”, diventa funzionale a un progetto o a un’idea, che nell’attuale sitema di organizzazione del mondo è l’idea del dominio totale e incondizionato del capitale sulla vita. Una scienza così povera non può aiutarci, né in 600 pagine, né in 6000.

(Francesco Paniè, Comune-info.net)

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