24 Aprile, 2024
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Roma. Le occupazioni abitative, l’accesso all’acqua e i limiti delle aziende fornitrici

La sede dell’Acea, una delle più importanti aziende fornitrici di acqua, elettricità e gas a Roma e in buona parte dell’Italia centro-meridionale, occupa quasi un intero isolato nei pressi di porta San Paolo, non lontano dal centro della capitale.

Lo scorso 9 dicembre i movimenti per il diritto all’abitare di Roma si sono ritrovati davanti a uno degli ingressi dell’edificio per scongiurare il rischio che in alcune occupazioni abitative venissero staccate le forniture. La paura nasceva dalle visite che pochi giorni prima, il 25 novembre, in concomitanza con lo sgombero del Cinema Palazzo a San Lorenzo, alcuni tecnici dell’Acea avevano fatto in alcuni palazzi occupati. Una delegazione dei manifestanti è stata ricevuta da un dirigente che avrebbe fornito delle rassicurazioni sulla volontà dell’azienda di non procedere ai distacchi. «Ci siamo preoccupati, anche perché c’è il rischio che il distacco preceda lo sgombero», ha detto, uscendo dall’incontro, una delle persone che faceva parte della delegazione. In ogni caso la mancanza di elettricità, gas e soprattutto di acqua rischia di rendere impossibile la vita di chi abita nelle occupazioni, soprattutto in un periodo in cui si è costretti a passare molto tempo in casa.

Esistono dei limiti all’azione dei gestori come l’Acea, spesso monopolisti nel loro ambito territoriale almeno per quel che riguarda la gestione dell’acqua.

L’Autorità di regolazione energia reti e ambiente (Arera) si occupa proprio di questo aspetto e tra marzo e aprile del 2020, nei primi mesi di confinamento per contrastare la pandemia, ha approvato alcune deliberazioni (l’ultima è del 30 aprile 2020) con delle misure per agevolare i pagamenti di chi si trovava in condizioni di morosità o aveva difficoltà a rispettare le scadenze. Questi provvedimenti si sono aggiunti a un altro contributo denominato Bonus idrico, esistente dal 2018. In questo senso si è mossa anche l’Iren, gestore dei servizi di città come Torino, Parma e Genova – e, al pari dell’Acea, società quotata in borsa –, per alcune particolari categorie di utenti, come i possessori di una partita Iva, che si sono trovati a vivere in zona rossa o arancione. La normativa inoltre stabilisce in cinquanta litri per persona il fabbisogno minimo giornaliero e fissa il percorso necessario per arrivare al distacco delle utenze, contemplando casi in cui il servizio viene considerato non interrompibile o al massimo riducibile non oltre il minimo vitale per la situazione di fragilità dell’utente coinvolto.

Uno dei fattori che complica la situazione è la legge n. 47 del 2014 (nota come decreto Lupi, dal nome dell’allora ministro delle infrastrutture): l’articolo 5 richiede un documento che attesti la proprietà o il possesso di un immobile per concludere un contratto con i fornitori. «Spesso chi è assegnatario di una casa popolare non ha un contratto ma solo una determina dirigenziale e a volte abbiamo difficoltà a far accettare questo tipo di documento per ottenere l’attivazione delle utenze», dice Maria Vittoria Molinari che segue la situazione nel quartiere romano Tor Bella Monaca per conto dell’Associazione inquilini e abitanti (Asia Usb). Se si procede a un allaccio abusivo i rischi di una sanzione sono concreti e Molinari fa notare come i costi previsti dal regolamento di utenza dell’Acea Ato 2 (la società del gruppo Acea che si occupa della gestione dell’acqua nell’AtoAmbito territoriale ottimale, di cui fa parte Roma) siano elevati, superando i mille euro solo per l’accertamento dell’illecito. L’azienda ha avviato nel 2019 una campagna mirata proprio a far emergere le situazioni irregolari con l’offerta di uno sconto sull’importo della fornitura ottenuta in assenza di un contratto. Circa un mese prima della manifestazione del 9 dicembre, la stessa Asia Usb aveva promosso un presidio davanti alla sede dell’Acea a cui era seguito un incontro con l’azienda e con l’Ater, la struttura che si occupa degli alloggi popolari nel Lazio, al termine del quale il sindacato si è detto soddisfatto e in un comunicato ha affermato che “l’Acea si è resa […] disponibile ad accogliere la richiesta della nostra organizzazione, prevedendo una più congrua rateazione del debito e delle multe per allaccio abusivo, in base al reddito del nucleo familiare”.

Per chi ha occupato una casa o un edificio la situazione è diversa, visto che non si è nelle condizioni previste dal decreto Lupi per attivare la fornitura. «Anche prima del decreto c’erano molte complicazioni – dice Cristiano Armati del Coordinamento cittadino lotta per la casa –.

Al momento dell’occupazione di un edificio si chiede comunque al gestore l’allaccio e una tariffazione sociale. In seguito a un rifiuto bisogna provvedere autonomamente, agendo con delle mobilitazioni mirate ogni volta che l’accesso all’acqua viene di nuovo messo in pericolo». Armati fa anche notare come le istituzioni non abbiano dato seguito al piano straordinario per l’emergenza abitativa preso in considerazione dalla Regione Lazio (deliberazione del 15 gennaio 2014, n. 18) che, tramite investimenti pubblici e procedure di auto-recupero, puntava alla creazione di nuovi alloggi, tenendo conto anche delle esigenze di chi aveva occupato e non solo di chi faceva già parte delle graduatorie per l’assegnazione di una casa popolare.

In mancanza di una soluzione complessiva del problema abitativo il rischio di vedere negato l’accesso all’acqua o agli altri servizi essenziali continuerà a esistere. «L’obiettivo dovrebbe essere una lotta per garantire il diritto di accesso all’acqua al di là dei singoli casi», dice ancora Molinari dell’Asia Usb. La campagna promossa dai movimenti per l’organizzazione e poi per l’approvazione dei due quesiti referendari sulla gestione dell’acqua (12 e 13 giugno 2011) sembrava avere proprio quello scopo. Il secondo quesito, proponendo l’eliminazione “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito” dai fattori da calcolare nelle tariffe delle bollette (decreto legislativo 152/2006, art. 154), incideva nella gestione delle risorse idriche e mirava a promuovere una gestione pubblica dell’acqua. Questo almeno era quello che molti pensavano allora. Di fronte alla mancanza di sviluppi, già pochi mesi dopo il referendum il Forum italiano dei movimenti per l’acqua avviò una campagna, denominata di “obbedienza civile”, invitando gli utenti a dedurre dalle bollette la quota corrispondente alla remunerazione del capitale investito, in apparenza non più dovuta.

La campagna è terminata quando il Consiglio di Stato, il 26 maggio 2017, ha confermato due sentenze del Tribunale arbitrario regionale della Lombardia ribadendo che il servizio idrico integrato (dalla captazione delle acque alla gestione delle fogne) anche dopo l’esito del referendum andava considerato un servizio pubblico di rilevanza economica, riconoscendo per i gestori il diritto di operare con l’obiettivo della completa copertura dei costi. Questa condizione, pur risultando in teoria più stringente rispetto alla remunerazione del capitale investito abolita dal referendum, contempla la possibilità di compensare anche il costo d’opportunità (cioè il mancato investimento in altro settore capace di produrre utili), oltre a quelli dipendenti dalla gestione diretta della rete. La sentenza non metteva in discussione la legittimità di una gestione improntata in senso privatistico, in cui l’interesse degli azionisti è cruciale per stabilire le politiche aziendali. Il gruppo Acea, azienda quotata in borsa da oltre vent’anni di cui il comune di Roma detiene la maggioranza delle quote (51%), ha pagato nel 2019 165 milioni di euro di dividendi ai soci e ha recentemente approvato un piano industriale per il periodo 2020-2024 che prevede un consistente aumento degli investimenti, delle assunzioni e degli stessi dividendi. Il piano prevede anche un’ambiziosa riduzione delle perdite nella rete, ammontanti al 39,2% nella rete di distribuzione dell’Ato 2, secondo il bilancio di sostenibilità 2019 redatto dall’azienda. Nel computo sono compresi anche i “consumi non autorizzati” dovuti agli allacci abusivi, ma manca il dato disaggregato e quindi non si riesce a capire l’entità di queste perdite.

L’entrata davanti a cui si sono svolti i due presidi si trova vicino alla scritta “Azienda comunale energia e ambiente”, il nome che sta (ancora) dietro all’acronimo Acea. Di “comunale” l’Acea ha ormai solo la presenza del Campidoglio come azionista principale. Nel periodo in cui si avviavano le privatizzazioni la legge che istituiva le autorità di controllo dei diversi settori (n. 481 del 1995) stabiliva che: “Il sistema tariffario deve altresì armonizzare gli obiettivi economico-finanziari dei soggetti esercenti il servizio con gli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse”. Un equilibrio che sembra sempre più difficile raggiungere.

(alessandro stoppoloni, Monitor)

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