19 Aprile, 2024
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Recovery Plan, non tutti gli investimenti sono uguali

Il 2020 dice che l’Italia resiste grazie all’Europa.

Tra il 2021 e il 2026 il Paese deve cambiare.

Politici e tecnici insieme devono saper spendere e puntare su investimenti ad alto impatto sulla crescita

Le valutazioni sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza italiano (Pnrr) sono ovviamente variegate. Su un punto, ovvio, c’è accordo. Le risorse europee per il nostro Paese sono di “grandi dimensioni” e vanno perciò “ben usate”. Perché la nostra crisi causa pandemia è gravissima e colpisce un’economia già provata da tanti dualismi che ne hanno ridotto le potenzialità.

Il 2020: l’Italia resiste grazie all’Europa.

L’anno si chiude un calo del Pil di circa il 10% con un debito pubblico sul Pil che sale al 160% dal 134% del 2019. La crescita del nostro debito è stata di circa 160 miliardi. Non siamo però crollati per due “macro reti” di salvataggio. La Bce e le Istituzioni europee. Le politiche monetarie della Bce hanno consentito la finanziabilità del nostro debito, riportando lo spread sui decennali tedeschi dall’impennata di marzo a 270 agli attuali 115 e riducendo il tasso sui nostri decennali ai minimi storici. Le politiche strutturali delle Istituzioni europee hanno reso ben presto evidente che la “solidarietà ideale” sarebbe diventata “solidarietà concreta”. Questo passaggio è storico perché il Piano europeo di Ripresa e Resilienza (dentro il più ampio Next Generation Eu) mobilità quasi 1.000 miliardi di euro con l’emissione di Eurobond e di questi 209 andranno all’Italia. Poi ci sono i 27 del Sure e i 36 rifiutati(!!) per ora del Mes. Qualcuno pensa che siano “meriti nostri”. A mio avviso è il futuro che lo dimostrerà.

Dal 2021 al 2026: l’Italia deve cambiare.

L’Italia deve fare la sua parte e questo richiede la consapevolezza delle istituzioni e dei cittadini per i prossimi sei anni. Non voglio entrare qui nella ripartizione delle risorse che arriveranno dal Programma europeo all’Italia, ma notare come cruciale sarà il loro uso. Per dare concretezza di sintesi a questa valutazione prendiamo tre caveat di Prometeia sul Recovery Plan.

Il primo è che la spesa per investimenti pubblici, pur ridotta rispetto a precedenti opzioni, dovrebbe aumentare da un trend storico dal 2014 pari al 2,4% del Pil al 3,5% del 2026. Una buona notizia.

Il secondo è che l’effetto sul Pil della spesa in investimenti dipende dalla qualità degli stessi, perché dopo un certo periodo di tempo quello diretto della spesa incrementale cala, mentre si mantiene nel tempo se la qualità è stata alta. La previsione del Governo di un incremento di 1,2 punti percentuali (già ridotta rispetto a precedenti) del Pil a fine 2023 ne dipende in maniera cruciale.

Il terzo è che l’Italia ha mostrato delle forti criticità nell’utilizzo dei fondi strutturali europei con riferimento ai quali abbiamo chiuso il ciclo 2007-2013 solo da poco, mentre la programmazione in corso mostra ancora un ritardo con solo il 40% delle risorse spese rispetto a quella deliberate! Ovvio che si tratta di dati di inefficienza gravi che se “governassero” il nostro Recovery Plan lo renderebbero irrealizzabile perché il sistema di programmazione, controllo della esecuzione delle opere, finanziamento delle stesse è (per fortuna) molto più stringente.

L’Italia: consapevolezza “tecnica” della sfida

Il Piano nazionale di Resilienza e Ripresa italiano ha conclusioni “tecniche” simili alla precedenti. Dal IV capitolo (molto ben fatto) su “valutazione dell’impatto macroeconomico” si possono ricavare in sintesi due punti ed una conclusione.

Il primo punto è che nel breve periodo gli effetti degli investimenti dipendono principalmente dal loro impatto tramite la domanda aggregata. Ovvero, semplificando, anche la spesa per le “rotonde stradali” dove non ci sono incroci crea domanda!

Il secondo punto è che nel medio periodo l’efficienza degli investimenti pubblici è cruciale, perché a conti fatti il differenziale di livello incrementale del Pil reale nell’anno finale della simulazione, cioè nel 2026, rispetto allo scenario di base (ovvero senza Piano) è pari a 1,1 punti percentuali nello scenario basso contro 2,3 punti percentuali se si ipotizzano investimenti ad alta efficienza. Si fa un caso emblematico sulla efficienza ed efficacia di lungo periodo della spesa in istruzione, ricerca scientifica e tecnoscienza su cui importante è il recente intervento del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ai Laboratori del Gran Sasso.

La conclusione del Piano è chiara e non banale, perché quantificata a conferma che per l’espansione dell’economia e per la sostenibilità del debito pubblico italiano è cruciale “selezionare progetti di investimenti pubblici ad alto impatto sulla crescita e accrescere l’efficienza delle Amministrazioni pubbliche preposte ad attuare tali progetti”.

L’Italia: consapevolezza “politica” della sfida

Personalmente non credo a una superiorità dei tecnici sui politici perché analizzare bene non vuol dire saper sintetizzare e decidere bene. I tecnici sono spesso settorialisti, mentre i politici devono essere sintetici. Vero è che ci sono esempi in vari Paesi europei e nelle istituzioni europee di eccellenti tecnici capaci di sintesi e decisioni politiche cruciali. Importante è però sempre la loro collaborazione. E qui vorrei dare un commento conclusivo. Ai livelli apicali delle amministrazioni pubbliche italiane ci sono state e ci sono qualificazioni eccellenti, capaci di promuovere riforme importanti con piena conoscenza degli apparati. La domanda è: i politici capivano e volevano queste riforme?

Alberto Quadrio Curzio, Economista, presidente emerito Accademia dei Lincei
(Huffpost)

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