12 Ottobre, 2024
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Mairead Corrigan Maguire: “In nome di Sarah Hijazi, diciamo basta agli affari con i suoi carnefici”

A sostenerlo, in questa intervista esclusiva concessa a Globalist è Mairead Corrigan Maguire, Premio Nobel per la Pace 1976.

“Una notizia terribile, sconvolgente. Una giovane donna che per ritrovare pace sceglie di togliersi la vita. Non riesco neanche a immaginare quale peso insopportabile Sarah Hijazi portasse dentro di sé, i ricordi atroci degli abusi subiti in carcere. Piango per lei, ma il dolore e la preghiera non bastano. Perché questa terribile storia deve ricordare a tutti noi che nel mondo vi sono migliaia di attivisti per i diritti umani che rischiano ogni giorno di essere incarcerati, torturati, fatti sparire per aver difeso quelle libertà, individuali e collettive, che regimi dittatoriali considerano una minaccia da estirpare con ogni mezzo. E con molti di questi regimi, l’Occidente, la civile Europa continua a fare affari e a vendere armi. Porre fine a questi affari è il modo migliore per onorare la memoria di Sarah Hijazi. A sostenerlo, in questa intervista esclusiva concessa a Globalist è Mairead Corrigan Maguire, Premio Nobel per la Pace 1976.  Nata a Belfast da famiglia cattolica, Maguire, decise di dedicarsi alla pace nel suo paese dopo che i tre figli della sorella furono investiti e uccisi da un’auto di cui aveva perso il controllo un membro dell’esercito repubblicano irlandese, colpito poco prima a morte da un soldato inglese. A seguito di quella tragedia la sorella si tolse la vita e Mairead fondò con Betty William, con cui ha condiviso il Nobel, il movimento “Donne per la pace”. Maguire è stata anche presidente della Nobel Women’s Initiative, la fondazione che unisce le donne insignite di questo prestigioso riconoscimento.

 ”Ai miei fratelli e sorelle, ho provato a sopravvivere e ho fallito, perdonatemi.

Ai miei amici, l’esperienza è dura e sono troppo debole per resistere, perdonatemi.

Al mondo, sei stato davvero crudele! Ma io perdono”, ha scritto nel biglietto di addio.

Queste parole fanno venire i brividi e le lacrime agli occhi.

C’è tutto un universo di sentimenti in queste parole di commiato. C’è una lezione di vita che una giovane donna impartisce al mondo nel momento in cui ha deciso che la sua vita era diventato un peso insopportabile da reggere. Sara parla di perdono, che è cosa diversa da assoluzione per quanti le hanno procurato un male indicibile. Il perdono è un sentimento nobile, ma che non significa dimenticare ciò che si è subito. Al tempo stesso, Sarah dice al mondo: sei stato davvero crudele! E la crudeltà non è solo nei suoi carnefici, in quanti hanno abusato del suo corpo e violato la sua anima. La crudeltà è anche il tratto di coloro che hanno deciso di arrestarla solo perché in un concerto aveva sventolato una bandiera arcobaleno, simbolo di pace. L’hanno arrestata e poi deciso di farle scontare la pena in un carcere maschile! La crudeltà è di un mondo che considera i diritti umani come qualcosa sacrificabile se in ballo ci sono commesse miliardarie. L’Europa, la civile Europa, non si fa scrupolo di vendere armi a regimi brutali, che quelle armi usano, come in Siria, come in Yemen, per fare strage continua di civili. Questa vergogna deve finire! Chi si macchia di crimini come quello che ha portato al suicidio una giovane donna egiziana, deve essere perseguito e non sostenuto. Di fronte a vicende come questa, dobbiamo rivendicare il diritto-dovere all’indignazione. Solo così la morte di Sarah non sarà vana. Mi lasci aggiungere che l’immagine di Sarah che mi porto nel cuore, è quella di lei, sorridente, che sventola una bandiera del movimento Lsgt. In quel sorriso c’è tutto: la speranza, la gioia di sentirsi parte di un movimento non violento che rivendica i diritti delle minoranze sessuali. Un sorriso che le è stato strappato con la forza. Come la sua voglia di vivere.

Globalist ha documentato che in Egitto i desaparecidos hanno superato in numero quelli dell’Argentina ai tempi di Videla.

Eppure con l’Egitto si continua a fare affari

Non intendo invadere campi che non mi competono, o entrare nelle vicende politiche di un Paese, in questo caso l’Italia. Ma so che vi sono due genitori che da anni, con dignità e fermezza, chiedono che sia fatta piena luce, verità e giustizia sull’atroce morte del loro figlio. Io sono al loro fianco. E aggiungo che certi regimi considerano gli affari come terreno di caccia, addirittura come arma di ricatto. E questo è intollerabile. I diritti umani, la loro difesa, il loro rafforzamento, non dovrebbero essere un optional nelle relazioni internazionali, ma un loro pilastro. Chi si macchia di crimini di guerra e contro l’umanità, deve essere bandito dalla comunità internazionale, e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali dovrebbe essere vincolante nelle relazioni, politiche e commerciali, tra Stati. Nel mondo vi sono decine e decine di migliaia di persone incarcerate, torturate, fatte sparire perché difendono valori e principi universali: attivisti dei diritti umani, blogger, giornalisti indipendenti, avvocati. Un mondo che chiude gli occhi di fronte a questo scempio, documentato dalle organizzazioni umanitarie e dalle stesse agenzie dell’Onu, è un mondo che si fonda sull’ingiustizia e l’oppressione che investono minoranze, etniche, religiose, di genere, e popoli interi, come quello palestinese

Un popolo che lei conosce molto bene. Il governo israeliano ha deciso di dare avvio, il 1° luglio, al piano unilaterale di annessione del 30% della Cisgiordania occupata. Hamas ha chiamato alla resistenza. Siamo alla vigilia di una nuova stagione di violenza?

Sono da sempre fautrice della disobbedienza civile e della resistenza non violenta. Ho vissuto gli anni terribili della guerra in Ulster e la mia famiglia ha pagato un prezzo pesantissimo in quel conflitto. Ho imparato allora la potenza del dialogo, dell’unirsi per chiedere pace, perché l’altro da sé non venisse visto come un nemico ma come qualcuno con cui incontrarsi a metà strada. Ma Israele sta abusando della sua forza, e  nel farlo commette un grave errore…

Quale?

Quello di illudersi che la pace e la sicurezza possano essere garantite e preservata dalla forza militare. Non è così. La pace, per essere davvero tale, deve coniugarsi con la giustizia. Senza giustizia non c’è pace. E non c’è pace quando un popolo è sotto occupazione, quando viene derubato della sua terra o segregato in villaggi-prigione. Quello palestinese è un popolo giovane, e intere generazioni sono nate e cresciute sotto occupazione, passando da un conflitto all’altro, senza speranza, con la sola rabbia come compagna. E dove c’è rabbia, dove la quotidianità è sofferenza, è impossibile che cresca la speranza.

Lei ha visitato più volte Gaza e altre volte è stata respinta da Israele. Come ci si sente nei panni di “nemica d’Israele”?

Quei “panni”, per usare la sua metafora, io non li ho mai indossati. Ho imparato sulla mia pelle cosa significhi discriminazione e odio. Io mi sento amica d’Israele e un amico vero è quello che prova a convincerti che stai sbagliando, che proseguendo su una certa strada finirai male. E’ questo che provo a dire agli israeliani: riconoscere il diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente, al fianco del vostro Stato, porre fine all’embargo a Gaza e alle inumane punizioni collettive, è fare onore a voi stessi, alla vostra storia. E’ investire su un futuro di pace che non potrà mai essere realizzato con le armi. Lo ripeto: non si può spacciare l’oppressione come difesa. Questo è immorale. La colonizzazione non favorisce la pace, ma alimenta l’ingiustizia. Da tempo nei Territori vige un sistema di apartheid , che ora si pretende di istituzionalizzare, e denunciarlo non significa essere “nemica d’Israele” e tanto meno anti semita. Significa guardare in faccia la realtà.

La questione palestinese sembra essere uscita dall’agenda dei leader mondiali.

E’ terribile il solo pensare che per “far notizia” si debba usare l’arma del terrore. E’ una cosa sconfortante, profondamente ingiusta, contro cui continuerò a battermi in ogni dove. La violenza è un vicolo cieco, un cammino insanguinato. Ma cinque milioni di palestinesi non sono diventati tutto ad un tratto dei “fantasmi”. Non si sono volatilizzati. Continuano a vivere sotto occupazione e sotto un’apparente “tranquillità” cresce la rabbia, la frustrazione, sentimenti sui quali possono far presa gruppi estremisti. Per questo occorre rilanciare il dialogo dal basso, favorire le azioni non violente, la disobbedienza civile, e in questa pratica unire palestinesi e israeliani, musulmani, cristiani, ebrei, come riuscimmo a fare noi in Irlanda del Nord, marciando insieme cattolici e protestanti. E poi c’è la diplomazia, la politica, che è fatta anche di atti simbolici che possono avere in prospettiva un grande peso

Un atto del genere quale potrebbe essere a suo avviso?

Il riconoscimento dello Stato di Palestina. Un atto politicamente forte, che faccia rivivere l’idea di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”. Sarebbe un bel segnale, soprattutto in un momento come questo, se fosse l’Europa, come Unione e non solo come singoli Paesi membri, a rilanciare questa prospettiva. In nome di una pace nella giustizia. La pace vera. Un mondo senza guerra e violenza è possibile.

(Globalist)

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